Se le Dee furiose sono portatrici di un’energia aggressiva che fa paura, e se sono schegge, frammenti più o meno grandi dell’originaria Dea della Vita e della Morte, Creatrice e Distruttrice – troppo potere, si diceva – questa energia deve d’altro canto trovare nel mito una collocazione, un luogo, un rapporto, un limite. Il mito dopotutto è narrazione del cosmos, degli intrecci, dei rapporti.
La domanda quindi “come placare l'ira della Dea?” porta alla ricerca delle vie possibili per placare la sua furia incontenibile, le declinazioni dei modi di ‘maneggiare’ ciò che non si può maneggiare e dare ad esso un posto nel mondo ordinato.
Nella maggior parte dei miti concernenti le Dee furiose, è un’energia positiva maschile a riportare all’equilibrio la Dea.
Ma non è il maschile attivo a riuscire in questa impresa. Il più delle volte il principio maschile riesce grazie al suo evitare il piano dello scontro, sul quale la Dea è, per definizione, imbattibile; sceglie quindi per lo più di frasi specchio dell’altra polarità, l’aspetto mite della Dea, che Ella da sola aveva perso, dandoLe così la ‘misura’ – e quindi il limite – della sua collera ‘smisurata’.(1)
Perché caratteristica comune a queste dee, come abbiamo visto, è il fatto che la loro collera ha ‘passato il segno’ e perso la ‘misura’, tanto che esse non sono più consapevoli di quanto stanno mettendo in atto, non c’è più confine e, di conseguenza, neppure contatto.
Trovare il limite è ritrovare la misura. Trovando un limite, un confine, e vedremo come, la collera non è più ‘smisurata’ e smarrisce il suo connotato esclusivamente distruttivo. Trovando il confine, la Dea riconosce l’Altro; riappare il mondo, al confine si ristabilisce il contatto, spesso improvvisamente assai diverso, lontano dalla situazione in cui la Dea era entrata nella sua furia.
Di vitale importanza è quindi la possibilità di un limite, di un confine.
Se il limite non c’è, se la rabbia non incontra un ‘altro’ che opponga in qualche forma resistenza, una soluzione è la retroflessione, che permette di ‘tastare’ un limite. Così la retroflessione può trovarsi sia nel caso in cui ci si trovi di fronte ad un limite strettissimo, che non permette alcuna espressione della rabbia, sia nel caso opposto, in cui alla rabbia risponda solo il vuoto o la ‘distruzione’ del suo oggetto (la madre che ‘va in pezzi’ di fronte alla collera del bambino).
Ascoltando le Storie delle Dee troviamo spesso questa vicenda del limite: alcune soluzioni permettono la trasformazione, l’integrazione, il superamento; altre volte, invece, si schiva, si imbroglia, o si obbliga la Dea alla morte(2).
Altrettanti interessanti possono essere le vie del culto della Dea, ove ne abbiamo notizia. In esse trapelano i modi per avvicinare - e onorare, cosa che in occidente non siamo molto abituati a fare - gli aspetti ‘furiosi’ del divino femminile e della vita.
E’ il rimedio dell’aglio, per intenderci… Al di là dello scherzo, nel percorso da Dea a demone, il volto oscuro ha perso potere al punto che ora esso è soggetto al bando magico. Nel quadro della lotta fra il bene e il male, ci sono parole e segni che tengono lontana l’energia distruttiva e proteggono case e persone. Se si segna la porta di casa con gli opportuni simboli, Lilith non potrà entrare, i suoi abitanti vivranno al sicuro e le donne partoriranno senza rischio figli sani. I segni portano con sé un concentrato di energia del bene e della luce e fungono da limite, da confine invalicabile.
Ancora oggi, in molti percorsi cosidetti ‘spirituali’ si consiglia a chi ha problemi con l’ira – la propria o quella altrui – l’uso di mantra e simboli sacri come scudo per non farsi travolgere da tale energia.
Funziona? In parte, per quanto ho potuto constatare. Un confine, anche se di parole e non di sostanza è pur sempre meglio di nessun confine...
Morale della favola nel mito di Sekhmet sembra essere che la via per placare la furia della Dea sia una sana sbronza. A uno stato alterato si reagisce alterando lo stato. Nel caso di Sekhmet, l’equazione è perfetta: le alterazioni si annullano a vicenda e la Dea si riprende e riappare come Hathor la dolce. Qualcosa come il tasto ‘reset’ sul pc.
Nella moderna psichiatria, sembra essersi applicato proprio questo principio, A partire dall’ottocentesco stile ‘botta in testa’ dell’elettroshock, per proseguire con la farmacologia, che ha molto lavorato per trovare la formula che meglio si avvicini al bilanciamento esatto.
E’ un imbroglio, noi lo sappiamo - la Sua sete era di sangue - ma da quando in qua gli Dei sono esenti dall’imbroglio?
Funziona, sembra, se si azzecca la formula.
Nella vicenda di Lilith, è importante l’esilio, ove Ella stessa si reca. Da un lato infatti la Dea è esiliata, di solito in luogo ostili alla vita, simili a lei, dall’altro lato riceve un regno in cui può essere regina, consorte del diavolo. L’ebraismo, come il cristianesimo poi, non ha spazio per una funzione positiva del volto distruttivo della Dea. Il confine, qui, è confinamento, esilio.
Per molti versi analoghe sono le vicende di Medea fuori dalle leggi della civiltà nella versione di Euripide, o delle streghe che operano di nascosto, di notte, nei secoli oscuri. Portatrici di un culto non più possibile, si isolano. O come le amazzoni, che, secondo alcuni, tentarono di fronte alle invasioni patriarcali la via dell’esilio, in territori senza uomini. Autoesilio, cone nel caso di Lilith. Agli occhi degli altri, figure demoniache.
Nella più parte dei racconti, è l’incontro con l’Altro (Shiva, il marito) che si rende visibile, a rappresentare per Kali il limite.
Kali, avanzando sul campo di battaglia, si trova a calpestare il corpo di Shiva e, improvvisamente, lo riconosce. La forza del Suo legame con Lui, sia dal punto di vista individuale – la relazione fra il Dio e la Dea è la base ontologica su cui ogni cosa poggia, nell’induismo – sia dal punto di vista sociale – il Marito/Re nell’organizzazione patriarcale – riporta Kali alla realtà, le rende il confine, il contatto, e di conseguenza il Suo volto benevolo, quello che esprime nella relazione con Shiva, appunto.
Riappare la Donna, la Giovane bellissima, la sposa del Dio.
Interessante e importante: Shiva non si impone. Il maschile è passivo, il femminile attivo. Non è la forza di Shiva il limite, ma la forza, come detto, della Sua relazione con lui.
Nella versione tantrica, Kali – la Dea suprema – avanzando sul campo di battaglia si trova sul corpo di Shiva che si è sdraiato fra i cadaveri e dà inizio al coito con Shiva. Quella che era rabbia, furia distruttiva incontrollata, passa per la forma primaria dell’energia e si trasforma in sesso, altrettanto sfrenato, ma costruttivo, e dà origine al mondo.
C'è da fare però attenzione al fatto che Kali non ha mai simboli di fertilità e fruttificazione nelle mani, per cui la generazione non è qui quella di Parvati Devi.
Vi è concomitanza, nel mito come nella realtà, dell’energia della rabbia e di quella sessuale e vi è quindi possibilità di trasformazione dell’una nell’altra.
Come succede che l’energia sessuale, per interposto introietto, si trasponga in energia rabbiosa, come ha esemplificato Berne nel gioco da lui chiamato “tempesta”, per lo stesso principio è possibile che l’energia rabbiosa si incanali nella sua forma primaria nell’amplesso.
Nel caso di Kali tantrica dopotutto è sempre la stessa energia quella di cui tratta il mito, e riconoscerlo, comprenderlo, praticare la via di tale trasformazione, è parte fondamentale del percorso dell’iniziato. E’ attraverso la via sessuale di incontro con la sacerdotessa-Dea, infatti, che il devoto può davvero incontrare Kali.
La contiguità di energia aggressiva e energia sessuale le definisce entrambe come energie positive, ‘buone’, vitali, in una visione del mondo in cui aggressività e libido sono forme diverse di una stessa energia divina.
Una storia ci racconta che Shiva si sdraia sul campo di battaglia nella sua forma di bambino. Kali riconosce il bambino, il latte inizia a scorrere dai suoi seni, sorride, riappare la Madre, la Dea della Vita.
Come nel caso di Shiva, è la relazione ad operare la trasformazione. Il latte scorre, nelle madri, anche al solo pensiero del bambino, nei primissimi mesi.
La distruttività si ferma davanti alla conservazione della specie.
Kali, nella sua essenza, è una con la Grande Madre, come era un tempo la Dea.
Ma ci può essere anche un altro significato: la possibilità di riconoscere la componente indifesa, il bambino interiore, l’altra polarità rispetto alla guerriera invincibile. Nell’incontro delle polarità interiori, la pacificazione.
Nel culto di Kali, la via della bhakti invita il devoto ad offrirsi alla Dea, disponibile al sacrificio, nella totale accettazione della sua potenza di morte.
Anche in questo caso la polarità è Dea della Vita, Dea della Morte, ed esse vengono comprese come una.
Nell’aspetto di Kali, il bhakta scorge la Madre, che distrugge per trasformare. Di fronte alla Sua incommensurabile potenza, ciascuno è come un bambino di fronte ad una Madre per ua natura incomprensibile. Come ogni madre terrena, la Dea appare anche nel suo volto pauroso. La via è fidarsi, affidarsi.
Nel tantrismo, d’altro canto, il principio è la capacità di riconoscere, attraverso Kali, il proprio lato oscuro. Ognuno di noi ha in sé Kali, e la via tantrica attraversa tutte le azioni impure, degradanti – quelle azioni che i bramhana vaishnava non farebbero mai. Porta a contatto con la morte, il sangue, la putrefazione. Invita a riconoscerle dentro di sé per poter stare davanti a Kali in piedi, a testa alta, sapendo di essere scintilla di quella stessa energia.
Ereshkigal rappresenta un caso particolare e anomalo nel panorama delle storie delle dee oscure.
Innanzitutto perché, alla fine, si rivela non completamente ‘oscura’, pur restando quello che è, rimanendo fedele alla sua natura di regina del mondo infero.
Nella sua storia è centrale e il ruolo della compassione/contenimento.
Il dio Enki, come abbiamo detto, manda due piccole figure in aiuto di Inanna, simili a mosche, creaturine ermafrodite, un kurgarra e un galatur. Ad essi, egli dà istruzioni precise su come ‘trattare’ con Ereshkigal:
Quando Ereshkigal grida ‘Oh, oh, il mio interno!’
Gridate anche voi ‘Oh, oh, il tuo interno!’
Quando grida ‘Oh, oh, il mio esterno!’
Gridate anche voi ‘Oh, oh, il tuo esterno!’
La regina ne sarà contenta.
I due eseguono, e fanno eco a Ereshkigal nei suoi lamenti di dolore. E qualcosa accade:
Ereshkigal si fermò
Li guardò.
Chiese: chi siete voi
Che gemete, sospirate e vi lamentate con me?
Il rispecchiamento del Suo dolore permette a Ereshkigal di esser confermata, di sentire il suo ‘interno’ e il suo ‘esterno’ riecheggiati dall’ambiente. L’eco diventa il limite, il confine, in una modalità accogliente e confermante, che è quella che permetterà alla Dea sia di fermarsi e di guardare, che di mantenere la sua identità.
Nei villaggi indiani, nelle campagne, l’adorazione della Dea come Kali una volta all’anno rappresenta il tempo (e il luogo) del selvaggio.
Il tempo e il luogo del pianto, del dolore, della possessione, della danza sfrenata, del sacrificio di sangue.
A Kali si offre un tempo limitato e ripetitivo – quell’una volta ogni anno - e si delimita lo spazio interno al villaggio, entro il quale è regina la sola Devi. Le murti di Kali vengono installate all’esterno. la Dea abita il selvaggio fuori.
Anche in occidente fino a non molto tempo fa vi erano tempi e luoghi extra, come ad esempio il carnevale.
Nel culto di Kali, trova spazio l’espressione senza freni del dolore, specialmente da parte delle donne, e un tributo di sangue viene pagato con il sacrificio di un animale – precedentemente si trattava di sacrifici umani, poi banditi dagli inglesi. Limiti precisi aprono e chiudono il rito. All’interno, i confini si perdono, le energie erompono, ciò che deve essere compiuto si compie. L’azione che ha luogo nel rito, al di fuori dell’ordine, è esente da karma.
L’ordine e ciò che sta fuori si definiscono a vicenda. Entrambi appartengono alla Dea, che tutto include.
Fra le storie di Kali, una riporta come, incontrando Shiva sul campo di battaglia, Kali diede inizio ad una competizione di danza con lui. La sua furia venne incanalata in una gara a chi fosse riuscito a danzare in un modo che l’altro non fosse in grado di ripetere. Vinse Shiva allorché, alzando la gamba, mise in mostra le sue parti intime, cosa che Kali non riuscì afre, preda di un improvvisa vergogna. Ridendo, Kali ammise la sua sconfitta.
Al di là dell’evidente origine ‘recente’ del racconto, che presuppone una vergogna per il proprio sesso che naturalmente non appartiene alla Kali più antica, nella storia giocano un ruolo interessante la vergogna e la risata.
La Valcarenghi(3), sulla scia di Konrad Lorenz, collega strettamente la perdita di ad-gressività femminile ad-gressività intesa positivamente come capacità sana con la drammatica perdita del senso dell’umorismo. L’apparizione del riso, del senso dell’umorismo, determina quindi automaticamente la fuoriuscita da quello stato di eccesso di aggressività che non è altro che una compensazione di un deficit ad-gressivo. La vergogna segna dunque l’apparizione di un limite alla furia di Kali, uno sdoppiamento, una frattura che trova espressione nel suo ridere – e riconoscere a Shiva la vittoria in quella che è diventata una competizione semi-seria.
Ancora una volta l’Altro – Shiva – si presenta come il limite, portatore di una differenza – quella sessuale – e di un contesto – quello culturale nel quale si genera la vergogna. E in quella differenza, il riso.
Vendetta è la parola d’ordine delle Erinni, custodi del confine della giustizzia antica, del diritto femminile.
Nel Mahabaratha, Draupadi, i cui capelli sono stati sciolti, si trasforma in una forma di Kali e tale resta per il lungo tempo della permanenza con i Pandava nella foresta. Ella si calma quando può lavare i capelli nel sangue dei Kourava – i nemici dei Pandava – e solo dopo questa azione torna a legarsi i capelli nella tradizionale treccia. L’equilibrio che è stato rotto potrà essere ricreato solo dopo che è stato pagato il prezzo per l’offesa fatta a Draupadi. In mezzo, il regno di Kali e la grande battaglia di Kurukshetra, con i suoi - mi pare - 6 milioni di morti.
Qui, l’ira della Dea, per quanto immensa, ritrova alla fine il suo oggetto. La gestalt si chiude, scorre il sangue di chi aveva offeso. La Dea, appagata, si ritira.
Come nel caso delle Erinni, il punto è il rispetto di una legge, di una giustizia nei confronti della donna.
Si narrano numerosi racconti nei villaggi in cui una donna inerme, che non è protetta da nessuno, subisce un torto e la Dea Kali appare per vendicarla, seminando morte e distruzione fra i colpevoli.
La vendetta chiude il ciclo, la legge è il limite. L’ira si esprime nei confini del limite. La presenza di Kali ha un inizio, una fine e un perché.
In psicoterapia della Gestalt, si dice che una gestalt rimasta aperta continua a ripresentarsi per essere conclusa. Per certi versi, è sempre attiva. E, pur non accettando in realtà sostituzioni, si ripropone continuamente in situazioni che sembrano, ma non sono. E’ qui, presente, ma c’è uno scarto. E può esserci un bilanciamento, una resistenza.
L’ira, la rabbia, la furia si manifestano verso l’esterno, ma in luoghi che sono altro, o si rivolgono indietro, in retroflessione. Comune ad entrambi i casi è loro essere, apparentemente, inesauribili.
Un modo per uscire dalla ripetizione è riattivare l’energia e la sua direzione, recuperare l’originario ‘torto’, ritrovare l’originario oggetto dell’ira; se azione e oggetto verso cui è diretta sono congruenti, se si toglie il bilanciamento, lo scarto si annulla; allora il ciclo potrà chiudersi, e l’ira, espressa per quello che è, potrà essere placata. Si chiama, dall’antichità, catarsi.
E il tema della catarsi porta a riflettere su un aspetto particolare dei riti di Kali:
Un aspetto essenziale dei riti di molte delle dee furiose è il sacrificio.
La Dea è assetata di sangue. Per questo viene a Lei pagato un tributo di morte. Solo così la vita può accadere. Nei riti in onore di Kali, specie quelli di tradizione Tugh, emerge quell’aspetto cruento che attraversa anche tanta parte del mondo rituale antico più vicino a noi tratteggiato da Frazer.
Al culto di Kali appartiene il sacrificio animale, dopo che quello umano come già detto è stato vietato dagli inglesi nel secolo scorso. E anche quello animale è attualmente soggetto a divieto, salvo un ristretto numero di templi, eccezioni codificate.
In questo paragrafo mi interessa il sacrificio come tale, anche se esso va compreso come parte dell’extra-ordine - nel senso delle Baccanti, per intenderci – e come atto che scongiura: sangue di un altro al posto del mio.
Eppure proprio sul sacrificio come tale, è difficile esprimere parola, se non nella domanda.
Il sacrificio mette l’accento sulla inesauribilità della sete di sangue della Dea. Essa può essere placata, ma solo fino al prossimo risveglio, fino al momento in cui esigerà ancora una volta il suo tributo, in un ciclo senza fine. E se non riceve il suo tributo, mieterà vittime a sua scelta. O perlomeno questa è l’interpretazione che si dà qui da noi in occidente (quella che dà Neumann, ad es.), dove ci sono stati tempi in cui il sacrificio era parte del nostro mondo, dove domina un pessimismo cristiano in cui è solo grazie al sacrificio del Cristo che si scampa ad un destino infernale.
Contemporaneamente, sembriamo dimentichi di tale quadro cui pure apparteniamo e guardiamo al sacrificio come non ci appartenesse.
Eppure c’è qualcosa oltre, nel sacrificio, un aspetto ineludibile per cui la vita si nutre della vita, e anche questo è divino…
Ricordo una sera una pittrice, Maria Micozzi, parlava di come alle donne fosse stato sottratto il diritto al pensiero, al logos. Nei suoi quadri, donne e dee hanno la testa mozzata, assente, svanita in una nuvola.
Così accade con Medusa: Perseo, l’eroe, con l’aiuto di Atena, la donna senza madre, la uccide tagliandole la testa. La via che è quella del logos che si fa astuzia. Atena, in seguito, porta come egida la testa mozzata della Gorgone, con tutti i simboli del suo potere di morte e trasformazione. Mostra in questo modo la sua padronanza dell’aspetto medusa, che può usare in battaglia per incutere timore.
Atena, dopotutto, è anch’essa per certi versi una Dea furiosa. In alcune versioni del mito, è sullo scudo che Atena tiene il volto di Medusa, volto che si mostra, in battaglia, in luogo del suo. Gli effetti della sua ira sono temibili, basta pensare ad Aracne. Non era del resto nata con un urlo?
Della gestione della rabbia femminile in molte donne dello stampo Atena, hanno scritto in molte, fra cui la Boolen, e credo faccia parte del giro di conoscenze di ciascuna di noi almeno una o due sue rappresentanti.
Ma la via della padronanza, della conoscenza ha anche altre possibilità. Nel buddismo, come ho accennato, raggiunta l’opportuna preparazione e comprensione, si apre la possibilità della meditazione con le figure irate, che possono diventare alleate invincibili nella battaglia contro i nemici esterni ed interni.
In una storia di Kali, ella litiga con Shiva, suo marito, e si allontana da lu. Convinta dal saggio Narada a tornare da lui, ella sia vicina a lui e vede in un raggio di chiara luce una Dea nel suo cuore. E’ lei stessa, ma Kali non sa di aver già abbandonato la su forma ‘scura’ e di primo acchito pensa si tratti di un’altra Dea, e ne è gelosa. Chiarito l’equivoco, a Kali viene attibuito il nome di Tripura-Sundari, la bellissima dei tre mondi.
Alle volte succede. Talmente abituata ad essere ‘nera’, la Dea stessa non sa di aver già cambiato la sua forma. C’è bisogno di un altro, di uno specchio, per poterla vedere, per accorgersene.
... continua con le Conclusioni
Testo originale di Anna Pirera 2008-2009
nserito nel sito www.ilcerchiodellaluna.it nelll'Ottobre2009
2 - Grazie al cielo, nei miti tale eventualità è rara, a differenza che nelle fiabe in cui la strega cattiva inevitabilmente fa una brutta fine.
3 - M. Valcarenghi, op.cit, p. 4
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