BAUBO
II calore: recupero della sacralità
nella sessualità
di Clarissa Pinkola Estés
Baubo di laura Schmidt, immagine tratta da
https://www.cherrymagic.com
Sullo stesso tema leggi anche "Il
riso degli Dei"
Le dee sporcaccione
C'è un essere che vive nel sottosuolo selvaggio delle nature femminili.
Questa creatura è la nostra natura sensoriale, e come tutte le
creature complete ha i suoi cicli naturali e nutritivi.
Questo essere è curioso, nel suo porsi in relazione è talvolta
esigente, talaltra quiescente. Reagisce agli stimoli concernenti i sensi:
la musica, il movimento, il cibo, le bevande, la pace, la quiete, la bellezza,
l’oscurità.
Questo è l’aspetto femminile che possiede il calore. Non
un calore che si esprime in: «Facciamo del sesso».
È piuttosto una sorta di fuoco sotterraneo che talvolta divampa,
talaltra lentamente brucia, ciclicamente. Con l’energia che viene
liberata, la donna agisce come le pare conveniente. Nella donna, il calore
non è uno stato di eccitazione sessuale ma uno stato di intensa
consapevolezza sensoriale che include la sua sessualità, ma a essa
non si limita.
Molto si potrebbe scrivere sugli usi e gli abusi della natura sensoriale
femminile e come le donne stesse e altri attizzano il fuoco contro i suoi
ritmi naturali o cercano di spegnerlo del tutto. Concentriamoci invece su un aspetto che è ardente, decisamente
selvaggio, emanante un calore che ci riscalda di un sentimento buono.
Nelle donne moderne questa espressione sensoriale ha goduto di una brevissima
libertà prima della condanna; in molti luoghi ed epoche è
stata assolutamente bandita.
C'è un aspetto della sessualità femminile che nei tempi
antichi veniva detto oscenità sacra, non nel senso che ha assunto
oggi la parola, ma inteso come saggezza e intelligenza nella sessualità.
C'erano un tempo culti dedicati alla sessualità femminile irriverente,
che non erano dispregiativi ma intesi a ritrarre parti dell’inconscio
che rimangono tuttora misteriose e sconosciute.
L'idea stessa della sacralità della sessualità, e più
specificamente dell’oscenità, quale aspetto della sua sacralità,
è essenziale per la natura selvaggia. Nelle antiche culture matriarcali
esistevano dee dell’oscenità, così chiamate per la
loro lascivia innocente quanto scaltra. Tuttavia il linguaggio rende ormai
assai difficile comprendere le «dee oscene» senza connotati
volgari. Ecco dunque che cosa significa l’aggettivo osceno e altri
termini correlati.
Da questi significati, immagino potrete capire come mai questo aspetto
dell’antico culto delle dee fu sospinto in meandri sotterranei.
Desidero riprendere queste due definizioni date dal vocabolario affinché
possiate trarre le vostre conclusioni.
Sporco: dal latino spurcus. Non pulito, macchiato di
materia sudicia; fìg.: disonesto, turpe, osceno: coscienza
sporca, parole sporche, azione sporca»
Osceno: dal latino obscenus, che offende gravemente
il pudore: scritti osceni; fìg.: di cosa, bruttissima:
ovvero, dall’antico ebraico, Ob, che significa maga, strega.
A dispetto di tanta denigrazione, restano frammenti di storie nella cultura
che sono sopravvissuti a svariate purghe. Ci informano che l’osceno
non è affatto volgare, ma assomiglia piuttosto a una creatura fantastica
che vorreste avere tra le vostre migliori amiche.
Alcuni anni fa, quando presi a raccontare «storie delle dee sporcaccione»,
le donne sorridevano, poi si mettevano a ridere sentendo narrare gli exploits
delle donne, reali e mitologiche, che avevano usato la sessualità,
la sensualità, per ottenere qualcosa, affermarsi, alleviare la
tristezza, sollecitare il riso, rimettendo così a posto qualcosa
che era andata storta. Fui anche colpita da come le donne passavano al
riso: prima dovevano mettere da parte tutta la loro educazione, secondo
cui non era da vere signore.
Vidi che questo «comportamento da signore» in realtà,
al momento sbagliato, soffocava le donne invece di farle respirare liberamente.
Per ridere bisogna espirare e inspirare in rapida successione. Sappiamo
dalla chinesiologia e dalle terapie come l’Hakomi che con la respirazione
profonda sentiamo le nostre emozioni, mentre quando non desideriamo sentire,
smettiamo di respirare, tratteniamo il respiro.
Nel riso, la donna può cominciare a respirare davvero, e cominciare
quindi a sentire sensazioni non autorizzate. Ma quali sensazioni? Non
tanto di sollievo, né di conforto, quanto di apertura a lacrime
trattenute o a memorie dimenticate, o la rottura delle catene messe alla
personalità sensuale.
Mi fu chiaro che l’importanza di queste antiche dee dell’oscenità
stava nella loro capacità di allentare ciò che era troppo
stretto, di bandire la malinconia, di comunicare al corpo un umore che
non appartiene all’intelletto ma al corpo medesimo, di mantenere
liberi questi passaggi. È
il corpo che ride per le storie dei lupi delle praterie, di zio Trungpa,
per le battute di Mae West, e così via.
Le dee dell’oscenità producono una forma vitale di medicina
neurologica ed endocrina che si diffonde nel corpo.
Ecco dunque tre storie che rappresentano l’osceno nel senso del
termine da noi impiegato, nel senso di una sorta di incanto sessuale/sensuale
che produce una bella sensazione emotiva. Sono tutte e tre istruttive
per le donne. Due sono antiche, una è moderna, e parlano delle
dee sporcaccione. Le chiamo così perché a lungo hanno vagato
sotto terra. Nel senso positivo, appartengono alla terra fertile, al fango,
al concime della psiche, la sostanza creativa da cui tutte le arti traggono
origine. In effetti, rappresentano quell’aspetto della Donna Selvaggia
che è nel contempo sessuale e sacro.
Baubo: la Dea panciuta
Esiste un modo di dire assai efficace: Dice entre las piernas,
parla con quel che ha tra le gambe. Storie «tra-le-gambe»
si ritrovano in tutto il mondo. Una è la storia di Baubo, una dea
dell’antica Grecia, la cosiddetta «dea dell’oscenità».
Ha nomi più antichi, come Iambe, ed evidentemente i greci
la ripresero da ben più antiche culture. Sono esistite dee archetipe
selvagge della sessualità sacra e della fertilità Vita/Morte/Vita
fin dall’inizio dei tempi.
Un unico riferimento a Baubo negli scritti a noi pervenuti dall’antichità
fa pensare che il suo culto venne distrutto e sepolto sotto lo scompiglio
delle varie conquiste. Sento che da qualche parte, forse sotto le colline
silvane o i laghi nascosti tra i boschi in Europa e in Oriente, esistono
templi a lei dedicati, con tanto di icone ossee.
Non è dunque un caso se pochissimi hanno sentito parlare di Baubo,
ma ricordate che basta un coccio per ricostruire l’insieme. In questo
caso il coccio esiste, perché è arrivata a noi una storia
in cui compare Baubo. È una delle divinità più amabili
e picaresche che abbiano abitato l’Olimpo. Questa è la mia
cantadora, la versione basata sull’antico selvaggio frammento
di Baubo che ancora occhieggia nei miti greci dopo l’epoca matriarcale
e negli inni omerici.
Demetra, la dea materna della Terra, aveva una bellissima figlia di nome
Persefone, che un giorno giocava all’aperto. Persefone vide a un
tratto un fiore particolarmente bello, e allungò le mani per coglierlo.
D'improvviso la terra prese a tremare e si aprì una profonda voragine.
Dalle profondità della terra emerse Ade, il dio degli Inferi. Alto
e possente, stava ritto su un carro nero tirato da quattro cavalli del
colore dei fantasmi.
Ade rapì Persefone sul suo carro, e lanciò i cavalli giù
nelle profondità della terra. Le urla di Persefone si fecero sempre
più flebili a mano a meno che si richiudeva la voragine sulla terra,
come nulla fosse mai accaduto. Sulla terra regnò il silenzio, e
si diffuse il profumo dei fiori calpestati. E la voce della fanciulla
risuonò attraverso le pietre delle montagne, gorgogliò tra
le onde del mare. Demetra udì le pietre urlare. Udì le acque
urlare. E strappandosi il serto dalla chioma immortale, e spogliandosi
degli scuri veli, prese a volare sulla terra come un grande uccello, alla
ricerca di sua figlia, chiamandola a gran voce.
Quella notte una vecchia seduta al limitare di una caverna disse alle
sorelle di aver udito tre grida quel giorno: una era una giovane voce
che urlava di terrore, l’altra chiamava lamentosamente, e la terza
era di una madre in lacrime.
Persefone non si ritrovava, e iniziò così la lunga folle
ricerca di Demetra della figlia tanto amata. Demetra si infuriò,
pianse, urlò, cercò indizi e frugò dentro, sotto,
sopra ogni rialzo della terra, implorò compassione, implorò
la morte, ma non riuscì a trovare l’amata figlia.
Allora, lei che aveva fatto crescere ogni cosa per l’eternità,
maledisse tutti i campi fertili del mondo, urlando nell’afflizione:
«Morite! Morite! Morite!»
Per via della maledizione di Demetra, nessun bambino poteva nascere, non
poteva crescere il grano per il nutrimento, né potevano sbocciare
fiori per le feste o crescere rami d'albero per i morti. Tutto era appassito
e inaridito sulla terra riarsa.
Demetra non si era più bagnata, e le sue vesti erano tutte infangate
e i capelli arruffati. Nel suo cuore la pena vacillava, ma non si sarebbe
arresa. Dopo tante domande, preghiere, avventure che non avevano portato
a nulla, cadde infine accanto a un pozzo in un villaggio in cui nessuno
la conosceva. E appoggiò il corpo dolente contro la pietra fredda
del pozzo, e in quel mentre sopraggiunse una donna, o piuttosto una specie
di donna. E questa donna si mise a danzare davanti a Demetra dimenando
i fianchi in un modo che ricordava il rapporto sessuale, e scuotendo i
seni nella danza. E vedendola Demetra non potè trattenere un lieve
riso.
La femmina ballerina era davvero magica, perché non aveva testa,
e i capezzoli erano i suoi occhi e la vagina la sua bocca.
Con questa amabile bocca prese a intrattenere Demetra con storielle piccanti.
Demetra cominciò a sorridere, poi ridacchiò, poi esplose
in una fragorosa risata. E insieme risero le due donne, la piccola Baubo
e la potente Demetra.
E fu proprio questo riso che trasse Demetra dalla depressione e le diede
l’energia necessaria per continuare la ricerca della figlia; con
l’aiuto di Baubo, della vecchia Ecate e di Elio, il Sole, la ricerca
ebbe buon esito. Persefone fu restituita alla madre. Il mondo, la terra
e il ventre delle donne ripresero a fiorire.
Ho sempre amato la piccola Baubo più di qualsiasi altra dea della
mitologia greca, forse di qualunque altro personaggio, qualsiasi epoca.
Indubbiamente discende dalle panciute dee neolitiche, misteriose figure
senza testa, e talvolta senza piedi e senza braccia. Dire che sono immagini
della fertilità non basta, sono
molto di più. Sono i talismani del parlare femminile, di quel che
mai e poi mai una donna direbbe in presenza di un uomo, se non in circostanze
assolutamente insolite.
Rappresentano sensibilità ed espressioni uniche nel mondo; i seni,
e quanto si sente dentro a queste sensibili creature, le labbra della
vagina, in cui una donna prova sensazioni che altri potrebbero immaginare
ma solo lei conosce. E il riso che scuote il ventre è una delle
migliori medicine che una donna possa ricevere.
Ho sempre pensato che il tè delle signore non sia che un resto
di un antico rituale femminile, per stare insieme, e poter parlare con
le viscere, dire la verità, ridere a crepapelle, sentirsi rianimate,
e poi tornare a casa, dove tutto va meglio.
Talvolta è difficile allontanare gli uomini, affinchè le
donne possano restare da sole. So soltanto che un tempo le donne invitavano
gli uomini ad «andare a pesca». È un'astuzia cui le
donne ricorrono da tempi immemorabili, questa di allontanare gli uomini
per un po', per restare per conto proprio e insieme alle altre.
Di tanto in tanto le donne desiderano vivere in un'atmosfera squisitamente
femminile, in solitudine o in compagnia. È un ciclo femminile naturale.
L'energia maschile è bella, addirittura sontuosa, grandiosa. Ma
talvolta è come mangiare troppi cioccolatini. Per qualche giorno
vorremmo mangiare solo del riso in bianco e bere brodo leggero per ripulire
il palato. Di tanto in tanto dobbiamo farlo.
Inoltre, la piccola dea panciuta Baubo ci offre l’interessante idea
che un po' di oscenità aiuta a vincere la depressione. Ed è
vero che certe risate, provocate da tutte quelle vecchie storie che le
donne si raccontano, quelle storie di donne così incolori da essere
completamente insapori... quelle storie rimescolano la libido. Riattizzano
il fuoco dell'interesse per la vita.
Nel vostro tesoro ritrovato, mettete queste storielle sporche, storie
del tipo di Baubo, storie minori che sono una potente medicina, Le storielle
«sporche» non soltanto alleviano la depressione ma possono
far svanire la collera, lasciando una donna più contenta di prima.
Provate e vedrete.
Non posso dire molto di più sugli altri due aspetti della storia
di Baubo, perché vanno discussi in piccoli gruppi e soltanto tra
donne, ma posso dire questo: Baubo presenta un altro aspetto,
cioè vede con i capezzoli. Per gli uomini è un mistero,
ma durante i workshop le donne annuiscono entusiaste e affermano:
«So benissimo che cosa intendi!»
Vedere con i capezzoli è sicuramente un attributo sensoriale. I
capezzoli sono organi psichici, reagiscono alla temperatura, alla paura,
alla collera, al rumore. Sono un organo dei sensi quanto gli occhi.
Quel «parlare con la vagina» è, simbolicamente,
parlare con la prima materia, il più fondamentale, sincero
livello di verità – la os vitale. Che altro aggiungere
se non che Baubo parla dal filone materno, dalla miniera profonda, letteralmente
dalle profondità.
Nella storia di Demetra alla ricerca di sua figlia nessuno sa che cosa
Baubo dica davvero a Demetra, ma qualche idea in proposito possiamo averla.
Dick, il Lupo delle Praterie
Le storielle che Baubo racconta a Demetra saranno probabilmente state
facezie femminili su quei trasmettitori e ricettori mirabilmente modellati
che sono i genitali. Se così fosse, forse Baubo raccontò
a Demetra una storia come questa, che ho sentito raccontare anni or sono
da un vecchio posteggiatore di Nogales.
Si chiamava Oid Red, e rivendicava sangue indigeno.
Non si era messo la dentiera, e da un paio di giorni non si radeva. La
sua simpatica vecchia moglie, Willowdean, aveva un volto grazioso ma rovinato.
Una volta, mi raccontò, nel corso di una rissa al bar, le avevano
rotto il naso. Possedeva tre Cadillac, nessuna delle quali funzionava.
Lei aveva un Chihuahua che teneva in un box per bambini in cucina. Lui
era il tipo che tiene il cappello in testa anche al cesso.
Ero in giro a raccogliere storie, e con la mia roulotte ero arrivata ai
loro terreni. «Conoscete per caso storie di queste parti?»
esordii, intendendo la zona e i dintorni.
Oid Red guardò la moglie maliziosamente, con un sorrisetto provocatorio:
«Le racconterò di Dick il Lupo delle Praterie».
«Red, non stare a raccontarle questa storia. Red, tu non gliela
racconti proprio.»
«E io invece le racconto la storia di Dick il Lupo delle Praterie»,
asserì Old Red.
Willowdean si prese la testa tra le mani e disse, come parlando al muro:
«Non raccontarle quella storia, Red. Dico sul serio».
«Gliela racconto subito, Willowdean.»
Willowdean sedeva sul bordo della sedia, con una mano sugli occhi come
fosse improvvisamente diventata cieca.
Ecco cosa mi raccontò Oid Red. Disse di aver sentito questa storia
«da un vecchio navajo che l’aveva sentita da un messicano
che l’aveva sentita da uno hopi».
C'era una volta Dick il Lupo delle Praterie, ed era la creatura più
affascinante e più stupida nel contempo che uno possa mai sperare
d'incontrare. Aveva sempre fame di qualcosa, e sempre
giocava qualche tiro a qualcuno per ottenere quello che voleva, e il resto
del tempo dormiva.
Un bel giorno, mentre Dick il Lupo della Prateria dormiva, il suo pene
si stufò proprio, e decise di abbandonare Dick e vivere un'avventura
per conto suo. Così il pene si staccò da Dick il Lupo delle
Praterie e si avviò per la sua strada. Più che altro andava
saltellando, perché aveva una gamba sola.
Saltellando saltellando se ne andava tutto contento e dalla strada saltò
nel bosco dove - Oh no! - finì dritto in un mucchio di aghi pungenti.
«Ahi!» urlò. «Ahiiii!» strillò.
«Aiuto! Aiuto!»
Tutte quelle urla risvegliarono Dick il Lupo delle Praterie, e quando
abbassò la mano per rallegrarsi con la solita manovra, quello non
c'era più! Dick il Lupo delle Praterie corse giù per la
strada tenendosi tra le gambe, e alla fine arrivò dov'era il suo
pene, nel peggior stato che possiate immaginare. Delicatamente Dick sollevò
il suo avventuroso pene dagli aghi, lo accarezzò e lo blandì,
e lo rimise al posto giusto.
Old Red rideva come un pazzo, tossendo, strabuzzando gli occhi e tutto
il resto. «E questa è la storia del vecchio Dick il Lupo
delle Praterie.»
Willowdean lo ammonì: «Ti sei dimenticato di raccontarle
il finale».
«Quale finale? Gliel'ho già raccontato il finale»,
borbottò Old Red.
«Ti sei dimenticato di raccontarle il vero finale della storia,
vecchio bidone.»
«Allora, se tè lo ricordi tanto bene, raccontaglielo
tu.» Suonarono alla porta e lui si alzò dalla sedia
cigolante.
Willowdean mi fissò con gli occhi che le brillavano: «La
fine della storia è la morale».
In quell’istante Baubo s'impossessò di Willowdean, perché
cominciò con risatine soffocate, poi sghignazzò per poi
esplodere in una fragorosa risata, e tanto a lungo rise che le vennero
le lacrime agli occhi, e le ci vollero un paio di minuti per dire queste
due frasi, ripetendo ogni parola due o tre volte tra un sussulto e un
altro.
«La morale è che quegli aghi, anche quando Dick li ebbe
tolti, continuarono a pungergli il coso, da diventar matti. Ecco perché
gli uomini scivolano contro le donne, e si strofinano con quello sguardo
negli occhi che dice: ‘Ho un tale prurito'. Sai, quel cazzo universale
prude sempre da quella prima volta che è corso via.»
Ora non saprei proprio dire che cosa mi colpì, so soltanto che
lì nella sua cucina abbiamo riso tanto da perdere il controllo
dei muscoli. Mi rimase poi una sensazione speciale, come di aver mangiato un bel pezzo di rafano.
È il genere di storia che secondo me raccontò Baubo. Il
suo repertorio comprende tutte quelle che fanno ridere così le
donne, senza trattenersi, e non importa se si vedono le tonsille, se il ventre sporge e il seno ballonzola. C'è qualcosa di speciale nella
risata sul sesso. La risata «sessuale» pare raggiungere le
profondità della psiche, scuotendo tutto quanto è sciolto,
giocando sulle ossa, facendo scorrere in tutto il corpo una sensazione
deliziosa. È una forma di piacere selvaggio che appartiene al repertorio
psichico di ogni donna.
Il sacro e il sensuale/sessuale vivono vicinissimi nella psiche, poiché
sono proposti all’attenzione da un senso di meraviglia e non dall’intellettualizzazione
ma dall'esperienza di qualcosa che attraversa i sentieri fisici del corpo,
qualcosa che per un attimo o per sempre, che si tratti di un bacio, di
una visione, di una risata o altro ancora, ci tramuta, ci riscuote, ci
solleva su una vetta, appiana le nostre rughe, rende il nostro passo danzante,
ci fa provare un'esplosione di vita.
Nel sacro, nell’osceno, nel sessuale c'è sempre una risata
selvaggia in attesa, un breve passaggio di riso silente, o la risata di
una vecchia, o il respiro affannoso che è riso, o il riso che è
selvaggio e animalesco, o il trillo che è come una scala musicale.
Il riso è un lato nascosto della sessualità femminile; è
fisico, elementare, appassionato, vitalizzante e pertanto eccitante. È
una sessualità senza scopo, a differenza dell" eccitazione
genitale. È una sessualità della gioia, per un istante appena,
un vero amore sensuale che vola libero e vive e muore e di nuovo vive
della sua propria energia. È sacro perché è così
salutare. È sensuale perché risveglia il corpo e le emozioni.
È sessuale perché è eccitante e provoca ondate di
piacere. Non è unidimensionale, perché il riso si spartisce
con se stessi e con tanti altri. È la sessualità più
selvaggia nella donna.
Ecco ora un'altra storia di donne e di dee sporcaccione. La sentii quand'ero
piccola. È sorprendente la quantità di cose che i bambini
sentono quando, secondo gli adulti, non ascoltano.
Un viaggio in Ruanda
Avevo circa dodici anni, e ci trovavamo a Big Bass Lake, nel Michigan.
Dopo aver preparato la colazione e il pranzo per quaranta persone, tutte
le mie simpatiche parenti, mia madre e le zie, se ne stavano al sole sdraiate
su delle chaise longue, a chiacchierare e scherzare. Gli uomini erano
«a pesca», cioè se la spassavano per conto loro, raccontandosi
le loro storielle e le loro barzellette. Io giocavo per conto mio, abbastanza
vicina alle donne.
D'improvviso udii delle urla acute, e corsi allarmata dove si trovavano
le donne. Ma non urlavano di dolore. Ridevano, e una mia zia continuava
a ripetere, quando riusciva a prender fiato, «si coprirono la
faccia... si coprirono la faccia!» E questa frase misteriosa
scatenava le loro risate.
A lungo continuarono a urlare, a ridere, a restare senza fiato. Una mia
zia aveva una rivista appoggiata sulle gambe. Quando molto più
tardi le donne si appisolarono al sole, feci scivolare la rivista giù
dalle gambe della zia e sdraiata sotto la chaise longue mi misi a leggere
con grande curiosità. Riportava un aneddoto della seconda guerra
mondiale.
Il generale Eisenhower stava per visitare le sue truppe nel Ruanda. (Avrebbero
potuto essere nel Borneo, e il generale avrebbe potuto essere MacArthur.
Ai tempi i nomi significavano ben poco per me.) Il governatore voleva
che le indigene si ponessero ai lati della strada e si sbracciassero e
dessero il benvenuto a Eisenhower mentre passava sulla jeep. L'unico problema
era che le indigene non indossava mai altro che una collanina di perle,
e qualche volta una sorta di cintura.
No, non andava per niente bene. Così il governatore convocò
il capo tribù e gli espose il problema. «Non ti preoccupare»,
disse il capo della tribù. Se il governatore fosse riuscito a fornire
parecchie decine di gonne e camicette, si sarebbe preoccupato lui di farle
indossare alle donne per quella speciale circostanza. E il governatore
e i missionari del luogo si diedero un gran daffare per fornire quanto
richiesto.
Tuttavia, il giorno della grande parata, e pochi minuti prima che Eisenhower,
come previsto, passasse sulla sua jeep, si scoprì che, mentre tutte
le indigene avevano diligentemente indossato le gonne, non si erano messe
le camicette, e per giunta le avevano lasciate a casa. Così se
ne stavano lungo i due lati della strada a petto nudo, con le gonne e
nient'altro addosso.
Al governatore venne un colpo quando fu informato della cosa, e immediatamente
convocò il capo tribù. Questi gli assicurò che la
donna più importante della tribù, quando aveva conferito
con lui, gli aveva confermato che tutte erano pronte a coprirsi il petto
al passaggio del generale. «Sei proprio sicuro?»
urlò il governatore. «Sicuro, sicurissimo»,
rispose il capo tribù.
Non c’era più tempo per discutere, e possiamo soltanto immaginare
la reazione del generale Eisenhower quando arrivò sulla sua jeep
e vide una donna dopo l’altra, a seno nudo, tirar su la gonna per
coprirsi la faccia.
Me ne stavo sotto la sedia cercando di soffocare la mia risata.
Era la storia più stupida che avessi mai sentito. Era una storia
stupenda, un vero thriller. Ma a intuito mi rendevo anche conto che era
proibita, e così per anni e anni la tenni per me. E talvolta, in
momenti di difficoltà, di tensione, magari prima di dare un esame
all’università, pensavo alle donne del Ruanda che si coprivano
la faccia con le gonne, e indubbiamente se la ridevano. E ridevo, mi sentivo
concentrata, forte, coi piedi sulla terra.
Questo indubbiamente è l’altro dono degli scherzi e del riso
delle donne. Diventa un'ottima medicina per i tempi duri, un corroborante
nella convalescenza. Possiamo pensare al sessuale e all’irriverente
come a qualcosa di sacro?
Sì, specie quando sono medicine.
Jung osservò che se qualcuno arrivava nel suo studio lamentandosi
di un problema sessuale, il problema vero era spesso più che altro
dello spirito e dell’anima. Quando una persona
parlava di un problema spirituale, spesso in realtà si trattava
di un problema di natura sessuale.
In tale senso, la sessualità può essere foggiata come una
medicina per lo spirito, ed è pertanto sacra. Quando il riso aiuta
senza far danno, quando rischiara, riallinea, riordina, riasserisce potere
e forze, quel riso porta salute. Quando il riso rende le persone contente
di essere al mondo, più consapevoli dell’amore e dell’eros,
quando allevia la tristezza e vince la collera, allora è sacro.
Nell’archetipo della Donna Selvaggia, c'è molto spazio per
la natura delle dee sporcaccione. Nella natura selvaggia, il sacro e l’irriverente,
il sacro e il sessuale non sono separati ma vivono insieme come, immagino
io, un gruppo di vecchissime donne ai bordi della strada in attesa del
nostro passaggio. Sono nella vostra psiche, vi attendono per mostrarsi,
e intanto si raccontano le loro storie e ridono come pazze.
Tratto da “Donne che corrono coi lupi” di Clarissa
Pinkola Estés, Frassinelli 1993
Inserito
nel sito www.ilcerchiodellaluna.it
il 22 settembre 2006
Sullo stesso tema leggi anche "Il
riso degli Dei"
|