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L'Intimità femminea arcaica e il sacro rito dell'Anasyrma
di Violet*

Come cerbiatte o giovenche, nel tempo della primavera, sazie di cibo balzano attraverso il prato,
così esse, sollevando i lembi delle belle vesti, correvano lungo la strada avvallata
e le chiome giù per le spalle ondeggiavano, simili al fiore del croco.

(Inni omerici, a cura di Filippo Cassola)

Nell’antico mondo femminile, le donne coltivavano e custodivano in loro stesse la consapevolezza dell’amorosa presenza del divino muliebre, che ardeva dentro di loro come un piccolo e luminoso fuoco perpetuo, colmandole di dolce voluttà. Il loro corpo dalle rosee e morbide curve, era concepito come una sua sacra manifestazione, che ne ritraeva l’armoniosa e languida bellezza, ma soprattutto la loro segreta intimità, avvolta in calde penombre e velata per proteggerne il mistero, era il ricettacolo nel quale la sua energia numinosa si concentrava e si propagava.

Ricolma della tenera eco d’amore della Dea androgina, essa era venerata e sentita proprio come un centro divino trascendente, come un tiepido covo in cui veniva percepito “un tenue e costante languore erotico” (1) e in cui la coscienza silenziosa della comunione fra la Dea e la donna pulsava amabilmente, generando e rigenerando la splendida magia femminile.

Spesso paragonata alle espressioni più belle e gentili della vergine natura, l’intimità era vista come uno specchio d’acqua purissima, come una sorgente fluente dalle scure rocce ricoperte di soffice muschio e piccoli fiorellini bianchi, che ammaliava col suo sottile canto cristallino, profondendo la sua infinita armonia che addormenta i pensieri…
Assomigliava a un delicato fiore purpureo dai languidi e umidi petali, poiché dei fiori aveva “la bellezza, la grazia e la capacità generativa” (2), ed emanava profumi e soavi influssi in grado di trasportare oltre la percezione di veglia, e di richiamare la parte più vera e naturale di coloro che ne venivano invasi. Era altresì simile ad un succoso frutto dal dolce sapore, come una melagrana dallo spacco vermiglio o un tenero fico dalla polpa rosata, che portava nutrimento profondo e tratteneva nelle sue cavità i ricchi semi fecondi (3).

E ancora, era sentita come un bosco misterioso e vibrante di vita nascosta, come un giardino incantato, dai verdissimi prati bagnati di rugiada mattutina e rischiarati da un sole che lumeggiava e scaldava dall’interno, o come una piccola grotta sacra, accogliente, ombrosa e umida, in cui brillavano cristalli dai mille riflessi e scorrevano fiumi sotterranei di liquidi umori e flusso sanguigno.
Come la grotta – che deve l’origine del suo nome al greco kryptos, ovvero “celato” – l’intimità era un materno rifugio segreto e protetto, che poteva essere trovato solo da coloro che erano portatori di un’anima nobile e luminosa, i quali avrebbero potuto accedervi ed incantarsi nella voluttuosa bellezza e nella gioia dell’amore che le donne avrebbero piacevolmente concesso. Ma se coloro che lo cercavano e lo desideravano avessero posseduto un animo volgare e meschino, esso sarebbe rimasto inaccessibile, nascosto e precluso in eterno, poiché l’intrusione di simili oscure influenze e il congiungimento intimo con un maschio che ne fosse stato portatore, avrebbe avuto il senso di una gravissima profanazione, e colei che le avesse subite, o che avesse volontariamente acconsentito ad accoglierle, avrebbe perso la sua magia femminile e la consapevolezza della presenza divina in se stessa. Per questo le donne che erano fedeli sacerdotesse della Dea proteggevano e preservavano con estrema dedizione la loro piccola grotta porporina vibrante di buone energie, come fossero inesorabili guardiane che sapevano scrutare dall’interno la verità delle cose, per avvicinarle e richiamarle, o al contrario, per allontanarle e combatterle. Ed è possibile che sia a questa loro attenta difesa che si riferiscano certi antichi racconti “di grotte e di caverne, abitate da fate e custodite da draghi e da altre entità guardiane che impediscono ai profani l’accesso” (4).

Pervase dalla divina essenza amorosa che raccoglievano nel loro intimo, le donne cercavano di concentrarsi, di identificarsi e di riconoscersi in essa, lasciandosi avvolgere dal suo tiepido languore che aveva il potere di allontanare e far svanire qualsiasi pensiero, preoccupazione o stato d’animo negativo, ristabilendo l’armonia interiore e rendendo la mente limpida come le acque di un ruscello di montagna (5). Immerse nel silenzio interiore, esse potevano così udire l’antica Madre che mormorava e cantava dentro di loro e intorno a loro, e forse vivevano momenti d’estasi e commozione nell’ascoltarla, nel sentirla parte di sé così come loro erano parte di Lei e del suo amore infinito, lo stesso amore che permeava la natura e che esse potevano intuire nel cinguettare degli uccellini sui rami d’un pesco fiorito, nel timido spuntare di una stella alpina fra le rocce, o nella pallida luna che si vela di nubi leggere nella quiete della notte.
Proprio come un magico fuoco che brucia e dissolve le ombre, l’energia erotica e armonizzante dell’intimità femminile poteva infatti purificare profondamente dalle disarmonie, dalle pesantezze e dalle oscurità, giungendo anche ad alleviare malesseri fisici e a guarire da certe malattie (6); e irradiava non solo nella donna, che ne era l’origine e la luminosa portatrice, ma anche intorno a lei, diffondendosi in sottili onde benefiche foriere d’amore, fortuna, gioia, fecondità, prosperità, e di ogni altra buona virtù.
Spargendo la loro sacra essenza sulla terra, le donne propiziavano il germogliare gentile dei fiori e degli alberi, e danzando e saltellando gioiose, con l’intimità priva di veli, sui campi arati e sui solchi che attendevano di ricevere la preziosa semenza, esse conciliavano la crescita di un ricco raccolto, che avrebbe nutrito in abbondanza l’intera tribù.
Ma il potere armonizzante e fecondante femminile si concentrava soprattutto in un gesto rituale arcaico che i greci chiamarono anasyrma, nel quale le donne, afferrati i lembi delle gonne, le alzavano repentinamente, e mostravano la loro sacra vulva.
Questo piccolo rito magico, considerato di ottimo augurio, scacciava le oscurità e gli influssi negativi, e proiettava tutta l’armonia, la fortuna e l’amore racchiusi nell’intimo femmineo, insieme alla felicità, alla bellezza e a tutte le più buone e dolci benedizioni (8).

Sembra che in ogni parte del mondo le donne, ispirate dall’amabile Dea e unite nell’anima da un luminoso filamento d’argento, svolgessero gli stessi riti e gli stessi gesti sacri. L’anasyrma, con la sua energia voluttuosa e benefica, era uno di questi, e molti racconti mitologici, nonché rituali la cui conoscenza è sopravvissuta sino a noi, ne conservano tuttora la memoria.

Seppur di origini arcaiche, e dunque di molto precedenti alla cultura ellenica, in Grecia questa sacra gestualità era stata attribuita alla gaia Baubo, che attraverso la sua storia l’aveva insegnata alle donne. Racconta la leggenda che dopo il rapimento dell’amatissima figlia Persefone, Demetra vagasse desolata per i campi aridi, le strade polverose e le città, mentre la natura aveva smesso di fiorire, il grano aveva smesso di crescere, e sulla terra era calato un lungo e sterile inverno. Giunta a Eleusi, la Dea sedeva stancamente accanto a un pozzo, in preda alla disperazione e allo sconforto, quando le si avvicinò una donna per attingere dell’acqua fresca. Vedendo la bella Demetra con gli occhi umidi di lacrime e pieni di tristezza, ella con vivacità si sollevò il chitone e le mostrò l’intimità ignuda, danzando e dimenando allegramente i fianchi. A quella vista Demetra, dapprima attonita, non poté fare a meno di ridere, e con quel sorriso, il primo che aveva illuminato il suo viso dopo la scomparsa della figlia, la malinconia si alleviò ed ella ritrovò il coraggio di proseguire il suo cammino. Di lì a poco Persefone venne ritrovata e con il suo gioioso ritorno la terra ricominciò a germogliare, le foglioline spuntarono sui rami, i fiori si schiusero e la primavera esplose in tutta la sua floridezza.
Eppure anche Demetra doveva conoscere bene quel magico gesto, se lei stessa era solita compierlo per propiziare la crescita del grano dorato e per benedire la terra. Sollevando la leggera veste e offrendo alla vista “il biondo efebeion in cui celavasi la divina sorgente di vita”, ella “lasciava che da questa liberamente emanassero gli influssi fecondi sulla famiglia, sugli animali, sui campi” (7). E le sue sacerdotesse anasyràmenai, consacrate a lei e dunque depositarie della sua benefica magia, la imitavano, preparando in tal modo il terreno arato alla semina e scongiurando l’attacco infestante degli insetti nocivi (9).

Proprio ricordando il sacro anasyrma compiuto dalla saggia Baubo, e dalla radiosa Demetra, le donne di Licia lo ripetevano in loro onore, e con la sua energia apotropaica riuscivano a placare le più violente manifestazioni naturali. Si racconta che, una accanto all’altra, così che la loro magia femminile fosse più forte e immediata, esse mostrarono la loro intimità al mare furente che sbatteva le sue altissime onde ad infrangersi sugli scogli e ad invadere violentemente le spiagge. E il grande mare, dinnanzi a quella visione inattesa, si ritirò, e con lui si ritirarono i flutti in tempesta (10).
Forse era anche per questo motivo se fra i greci e i latini si credeva che le donne, svelando la loro intimità e mostrandola al cielo plumbeo e minaccioso, avessero il misterioso potere di rasserenarlo, di calmare le bufere e di dissolvere le grigie nuvole riportando il brillare del sole.

Anche in Egitto, le donne compivano l’anasyrma in onore della Dea gatta Bubastis, che vegliava soprattutto sulla sfera sessuale e sull’intimità femminili.
Narra Erodoto che quando le donne, navigando il grande Nilo, si recavano numerose alla festa annuale dedicata alla Dea, esse si fermavano in ogni città che incontravano sul loro cammino e la attraversavano in rituale processione, suonando gioiosamente crotali e flauti, battendo le mani per tenere il ritmo, cantando, danzando in modo dolce e sensuale, gridando liberi motti alle altre donne egiziane che vivevano nella città, e alzando, fra allegre risa, le loro tuniche fin sopra alle cosce.
Anche qui, questo atto sacro aveva lo scopo di lasciar diffondere le magiche e amorose effusioni femminee; non solo, esso serviva anche come potente amuleto contro gli influssi maligni e profananti, che dal mondo esterno avrebbero potuto insinuarsi e rovinare quella delicata e splendida realtà muliebre. Così l’anasyrma apportava beneficio e fortuna alle città nelle quali veniva compiuto, e proteggeva tutte le donne e il loro piccolo mondo segreto.
Sempre in Egitto, anche la grande Iside era ritenuta maestra dell’anasyrma, ella che “nuda e divaricata”, lasciava “agli influssi benefici emananti dal segreto muliebre libertà di diffondersi per ogni dove” (11). E la mitologia egizia narra che la stessa Hathor, Dea bovina

Allontanandoci dalle calde terre mediterranee, ritroviamo pressoché invariato il potente atto rituale, il quale veniva compiuto con le stesse finalità propiziatorie.
In India, madre dell’anasyrma è la splendida Maya, che mostrava l’intimo divino agli Dèi per risvegliarli dal loro sonno mortale. Racconta il mito che “gli dèi assopiti in un sonno di morte, svuotati di ogni loro virtù, precipitati in fondo alle acque per non avere riconosciuta la onnipotenza di Maya, vengono già scossi dalle magiche arti della Grande Incantatrice; ma solo quando ella solleva gli intimi veli e discopre ai loro sguardi il mistero della sacra ‘yoni’; solo quando essi, come i pellegrini nella corrente del Gange, si bagnano nel fiotto sgorgante da quella fonte segreta e se ne dissetano, solo allora si compie il miracolo del loro perfetto risveglio.” (12)

In modo simile, l’anasyrma venne compiuto anche dalla Dea giapponese Uzume, mentre danzava sensualmente dinnanzi a tutti gli Dèi.
La leggenda narra di come la Dea del sole Amaterasu, furiosa per essere stata offesa dal fratello Susano’o, Dio della tempesta, si fosse rinchiusa in una grotta buia impedendo ai suoi raggi dorati di illuminare la terra. Senza la luminosità solare, il mondo era piombato in un’oscurità tetra e pesante, e a nulla erano servite le suppliche delle altre divinità per convincere la bella Dea ad uscire dal suo nascondiglio. Senza sapere più cosa escogitare per riportare la luce nel mondo, gli Dèi chiesero aiuto alla splendida danzatrice divina Ama-no-Uzume, la quale dapprima pose un grande specchio davanti alla soglia della grotta dove si nascondeva Amaterasu, e poi iniziò a danzare, e mentre danzava libera e selvaggia, si scoprì il bel seno e lasciò che la sua veste le scivolasse sino ai piedi, svelando la sua magica intimità e le natiche frementi.
Si dice che questo suo gesto provocò l’irresistibile risata delle “ottocento miriadi di dèi” (13), e che udendo quelle risa gioiose e scatenate Amaterasu, incuriosita, non poté fare a meno di sbirciare fuori dalla grotta per vedere cosa mai stesse accadendo. Fu così che per la prima volta vide se stessa riflessa nello specchio, e rimase così incantata da tanta luminosa bellezza che abbandonò il suo rifugio e tornò a splendere nel cielo, riportando la sua luce e la sua gaiezza a scaldare la terra.

Talvolta, durante gli antichi rituali agrari, alla magica gestualità dell’anasyrma si sostituiva l’assoluta nudità delle donne, le quali, con lo splendido corpo e il sacro mistero del tutto svelati, spargevano ancora più liberamente il loro armonioso potere generativo. Questo è ciò che accadeva in un rito agricolo che veniva celebrato prima della nascita di Roma, e che con la fondazione di questa imponente città si involgarì e degenerò, trasformandosi nella festa delle Floralia.
In questa meravigliosa celebrazione, chiamata Florifertum, si onorava la graziosa Dea Flora, madre della primavera, della germinazione, della fioritura, del risveglio della natura e regina di tutte le piante e dei cereali, e le vergini fanciulle, nude e libere, danzavano e passeggiavano e correvano felici per i campi seminati e per i bei prati, vestite solo di raggi di sole, cantando “ut omnia bene deflorescerent” – “affinché ogni cosa fiorisca bene” (14).
In tal modo la loro benefica energia fluiva dall’intimo segreto e si posava sulla bruna terra, aiutando i piccoli semi a germogliare, le piantine a crescere, i frutti a maturare.

La splendida magia femminile che le antiche divinità madri rappresentavano, e che le donne arcaiche facevano sorgere, coccolavano e preservavano nella loro sacra intimità, era dunque sempre la stessa, in ogni luogo e in ogni tempo, come si comprende da questi antichi miti così simili seppur appartenenti a culture diverse e molto lontane fra loro.
E l’istintiva gestualità dell’anasyrma era sempre ispirata da uno stato di luminosità interna, di felicità ed armonia così perfette e così intense da spingere le donne ad alzare le loro gonne per rivelare e mostrare quel divino tempio d’amore in cui quella gioia si concentrava di più, e la magia sbocciava e si sprigionava, riversandosi all’esterno e spargendo dappertutto grazia e bellezza.
Con il loro potere incantato, le donne che compivano il loro sacro gesto potevano infatti “far sorgere il sole”, ovvero riportare la luce, l’allegria, la leggerezza, la spensieratezza, e l’ilarità che vanifica ogni malumore, laddove erano calate oscurità, malinconia e sconforto.
Nello stesso modo, aiutavano la gentile primavera a fiorire, i boschi a ramificare e gemmare, le coltivazioni a fruttare, e allontanavano il grigio e spoglio inverno, sia nella natura vegetale sia nel cuore degli uomini.
Ed ancora, benedivano famiglie e città, placavano e raddolcivano le furiose tormente, ed esorcizzavano ciò che è malvagio, per ristabilire la quiete, l’armonia e la pace assoluta.
Non solo, esse potevano anche risvegliare il numinoso, scivolato in un sonno simile alla morte, proprio come Maya fece con le divinità dormienti; ovvero potevano forse richiamare e far risorgere la dorata scintilla divina che giace assopita nel centro dell’essere. Quella scintilla che, se ritrovata e rimirata, guardando nei più profondi recessi di sé come in un magico specchio, potrebbe rivelare l’antica verità dimenticata, eppure mai del tutto perduta. La verità dell’anima antica che brilla come un piccolo sole nascosto in una grotta, e che se mai prendesse coscienza di se stessa e del suo esistere, ovvero se mai riuscisse ad emergere dal suo nascondiglio e a mostrarsi, potrebbe illuminare il mondo intero, come forse la raggiante Amaterasu volle insegnare attraverso la sua storia.

E se qualche ormai rara fanciulla desiderasse ancora, in questi tempi caotici e spenti, di ritrovare quella scintilla d’amore languido e tiepida luce, magari aiutata dalla Fortuna, potrebbe forse iniziare a cercarla in quei luoghi misteriosi nei quali essa potrebbe nascondersi… come in una sorgente dalle scure rocce ricoperte di soffice muschio e fiorellini bianchi, o in un fiore purpureo dai languidi e umidi petali; in una dolcissima melagrana dallo spacco vermiglio, o persino in una piccola grotta umida, calda e accogliente…

E se mai ella riuscisse infine a trovarla, allora potrebbe veramente intuire e conoscere dentro di sé la dolcissima e commovente eco amorosa del divino muliebre, e il voluttuoso potere dell’antica magia delle donne.

* Articolo di Violet. tratto da Il tempio della Ninfa e, pubblicato su www.ilcerchiodellaluna.it nel luglio 2010
Vietata la riproduzione anche parziale senza il permesso scritto dell'autrice e senza citare la fonte.

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“ ‘Tu lo sai dove vuoi andare, vero cara?’
Riccioli d’Oro, dopo essere uscita dal soffice mucchio di neve in cui si era incastrata, rifletté un po’ sulla domanda che le era stata fatta, intendendo che ciò che le era stato chiesto (…) era uno dei tanti doppi sensi che la Professoressa aveva così spesso usato parlando con lei.
Poi rispose con un tono di voce che denotava sicurezza e determinazione: ‘Certo che so dove voglio arrivare (…). Voglio arrivare alla porta del sogno della grande Madre e voglio varcarla. È questa l’unica cosa che desidero in questo momento, dato che così facendo sarò sicura di poter stare sempre con voi. E per arrivare a quella porta sono pronta a tutto.’
Detto ciò piantò i bastoncini nella neve in modo da avere le mani libere, afferrò l’orlo delle due gonne che la Professoressa le aveva fatto indossare e le sollevò, mostrando l’inguine (…).
Percepì che la decisione di fare quell’atto non proveniva dalla sua parte senziente e volitiva, ovvero dal suo io pensante, ma da qualcosa di più profondo, di più reale e di più forte che giorno dopo giorno si stava risvegliando in lei.
Rimase per alcuni secondi in quella posa, senza pensieri, dubbi o incertezze, totalmente identificata con l’energia luminosa che le aveva suggerito quel comportamento.
Poi lasciò ricadere le gonne, afferrò i bastoncini da neve e disse: ‘Ora se vuole precedermi, la seguirò volentieri e le assicuro che percorrerò esattamente la pista da lei tracciata.’
La Professoressa sorrise, fece un cenno affermativo con la testa e si avviò lentamente nel silenzio del bosco innevato (…).”

Tratto da La casa delle donne dagli occhi luminosi, Ada D’Ariès, Edizioni della Terra di Mezzo, Milano, 2006, pagg. 121-122

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Note:

Riterrei importante fare una piccola precisazione: quando all’interno di scritti come questo si parla di “antico mondo femminile”, oppure di “tempi antichi”, oppure ancora di “donne arcaiche”, con questi e numerosi altri riferimenti “all’antichità” non ci si vuole mai riferire ad un periodo storico preciso, definito in termini di tempo e spazio, ma come spiega l’autrice Rosina-Fawzia Al Rawi nel suo bellissimo libro Grandmother’s Secrets, ci si riferisce piuttosto ad un interiore e profondo livello di consapevolezza e ad un modo d’essere più naturale e vicino al divino, che prescinde totalmente dal tempo e dallo spazio. (Cfr. Rosina-Fawzia Al Rawi, Grandmother’s Secrets, Interlink Books, Northampton, MA, 2009, pag. 29).
Tuttavia, se proprio si volesse indicare un’epoca si potrebbe forse riferirsi alla mitica Età dell’Oro, oppure più precisamente all’Età dell’Argento o Età delle Madri.

1. Ada D’Ariès, Alla ricerca della Luna, Edizioni della Terra di Mezzo, Milano, 1997, pag. 28
2. Irina Naceo, Delle antiche danze femminili, Edizioni della Terra di Mezzo, Milano, 2003, pag. 79
3. Sono molti i fiori e i frutti che nei tempi antichi simboleggiavano la vulva, e alcuni di questi erano il delicato loto, il papavero scarlatto e l’ireos; la spiga dorata e il melograno sanguigno traboccante di succosi chicchi che richiamavano l’infinita fertilità della Dea e della donna; il fico, la mela, che se tagliata verticalmente rivela il segno della vulva stessa; la capsula nera frutto del papavero ed anche la pigna.
4. Ada D’Ariès, op. cit., pag. 28
5. Nel libro La danza delle anime luminose, di Ada D’Ariès, viene descritta questa bellissima sensazione e il suo magico effetto di dissolvere i pensieri:
“L’effetto di quella cantilena su Nome fu stupefacente. Sentì improvvisamente una sensazione di indicibile languore nel proprio ventre, che mise con facilità a tacere tutti i pensieri ed i dubbi che erano in lei.
Il suo io pensante divenne completamente silenzioso. Vi era solamente una sensazione di calore languido così piacevole e così intensa, da catturare completamente la sua attenzione.
Poteva solo sentire quel languore e gioire del fatto di sentirlo.
(…) Per quasi mezz’ora rimase immobile, in silenzio, senza pensieri, con la mente vuota e limpida come un lago alpino di acqua cristallina, che percepiva solamente la calma gioia che continuava a provare e che dal suo ventre si era diffusa a tutto il corpo.” (Cfr. Ada D’Ariès, La danza delle anime luminose, Edizioni della Terra di Mezzo, Milano, 1996, pagg. 30-31)
6. Per approfondire questo argomento vedasi in particolare Ipotesi sulla Guarigione, di Davide Melzi, Edizioni della Terra di Mezzo, Milano, 1996; e relativa bibliografia.
7. Uberto Pestalozza, Religione mediterranea, Fratelli Bocca Editori, Milano, 1951, pag. 301
8. Risale solo al 1700 l’usanza di portare indumenti intimi, incitata da religiosi e moralisti che predicavano la necessità di coprire, nascondere, serrare, solo perché non era possibile estirparle, “le proprie vergogne”. Dinnanzi a ciò, si potrebbe chiaramente intuire quale povera visione distorta e fasulla avessero – e abbiano tuttora – questi miseri e ambigui individui.
9. In questo ultimo caso all’anasyrma si aggiungeva l’azione apotropaica del sangue mestruale.
Ancora recentemente le fanciulle della Transilvania livellano con l’erpice la terra inaridita, completamente nude ( Cfr. Uberto Pestalozza, op. cit., pag. 299).
10. Cfr. Uberto Pestalozza, op. cit., pag. 298
11. Uberto Pestalozza, op. cit., pag. 76
12. Uberto Pestalozza, op. cit., pag. 64
13. Uberto Pestalozza, op. cit., pag. 218 e n. 7
14. Col tempo, ciò che era puro e armonioso subì deformazioni e involgarimenti, e le Floralia potrebbero essere una delle tantissime dimostrazioni di questo passaggio degradante.
Questa festività, discostandosi nettamente da quella che la precedeva, divenne infatti occasione per dare sfogo a orrende bassezze, e durante i giorni di festa si svolgevano rappresentazioni mimiche interpretate dalle prostitute della città, che si spogliavano sulla scena ballando e movendosi in modo osceno, dopo aver gridato davanti all’imperatore, ai potenti dello stato e a tutto il popolo, il loro nome, la loro patria e il loro prezzo.
Ovviamente queste attrici erano ben diverse dalle sacre seguaci della Madre arcaica, e infatti con l’avanzare dell’era oscura moltissime donne si allontanarono dal divino, affidandosi ai nuovi ideali moderni e disarmonici, credendo alla miseria delle nuove religioni patriarcali, misogine e maschiliste, accettando di impersonare la mediocrità, se non addirittura la sporca volgarità, il più delle volte impartita e trasmessa come un putrido morbo infestante dal maschio che ne era già da tempo un portatore, e soprattutto cercando intimi congiungimenti con tale tipo di maschio, che soppresse in loro l’antica fiamma divina e le lasciò spente e incapaci di ricordare ciò che erano state nel loro lontano passato. Di conseguenza la loro intimità perse anch’essa la sua sacralità originaria e la sua limpida e buona emanazione, divenendo spesso profana e dunque profanante.
Si potrebbe pensare che la maggior parte delle donne moderne corrisponda inconsapevolmente a questa triste descrizione, seppure alcune fra loro possano provare una forte nostalgia per ciò che avrebbero potuto essere un tempo. Questa nostalgia potrebbe essere un buon segno del fatto che non tutto è perduto e che intraprendendo un difficilissimo percorso di purificazione e naturalizzazione, abbandonando tutte le sporcizie e le artificialità accumulate e cucite addosso attraverso anni, decenni, e forse anche vite intere, potrebbero un giorno ricongiungersi alla divinità, e tornare ad essere sue sacre e meravigliose manifestazioni nel mondo.

 

 






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