Porta
sull'altrove: note di simbologia dello specchio
di Alessandro Zabini*
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«I
am that which began;
Out of me the years roll;
Out of me God and man;
I am equal and whole;
God changes, and man, and the form of them bodily; I am the soul.»
Algernon Charles Swinburne, «Hertha»
L’apparenza illusoria e la rivelazione
del vero, o ciò che permette di distinguere la realtà
dall’illusione,
sono ugualmente simboleggiati dallo specchio, il quale rappresenta
inoltre la congiunzione degli opposti,
come vero e falso, autentico e ingannevole, trasparenza e opacità,
luce e oscurità, medesimo e altro,
oppure il riflesso che irretisce, o ancora la seducente bellezza
femminile:
in particolare, gli occhi e la capigliatura.
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Lo specchio può significare ciò
che talvolta esso stesso sembra essere materialmente: una finestra che
guarda lontano nello spazio e nel tempo, nel passato e nel futuro. Può
essere un varco per i viaggi astrali. Può persino trasformarsi,
come nella celeberrima fiaba di Alice, in un’autentica porta che
permette di passare concretamente in un altro mondo. Può essere,
dunque, una Porta sull’Altrove. Ma quale Altrove?
Si potrebbero elencare numerose possibilità. L’Altrove può
essere ciò che è altro da noi, e l’alterità,
anche se lo specchio medesimo avverte che la distinzione fra interiore
ed esteriore è forse puramente illusoria, può essere sia
esterna, come la natura selvaggia, sia interna, come la sessualità
e l’istinto primordiale, o come l’immaginario, l’inconscio,
il mondo infero: spazi dotati di un’autonomia irriducibile, pur
essendo parte di noi. L’Altrove può essere inteso anche come
estraneità assoluta rispetto a ciò che nel mondo attuale
si suole considerare reale, vale a dire ciò che resta al di fuori
del mondo materiale e razionale: il Numinoso in tutte le sue accezioni
e manifestazioni. Inoltre, l’Altrove può essere interpretato
come l’alterità assoluta rispetto alla vita, vale a dire
quella condizione inconoscibile e ineffabile che è la morte, senza
dimenticare che persino a questo proposito lo specchio suggerisce labilità
di confini e reciprocità. Si potrebbe aggiungere che l’Altrove,
inteso in tutti questi significati, e lo specchio, che lo simboleggia,
rappresentino tutto ciò che attrae e al tempo stesso atterrisce
l’uomo moderno, il quale vi reagisce con l’impulso a sottomettere
e a dominare, a disprezzare e sminuire, oppure ad annientare.
Ognuna di queste immagini dell’Altrove riflette la Grande Dèa
polinomica e polimorfica, «signora delle erbe dei fiori delle piante,
signora delle belve e degli armenti, signora degli agricoltori e dei marinai,
signora delle fanciulle mature per le nozze e delle spose feconde: a questo
suo vastissimo mondo, che comprende tutta la gamma degli esseri viventi
sulla terra, essa guarda benigna e soccorrevole, pronta a favorirne e
proteggerne via via il prodigioso moltiplicarsi» (1).
E con lei sono riflesse nelle immagini dell’Altrove le divinità
che incarnano i suoi numerosi aspetti: Diana, antica Dèa italica
delle Selve; Artemide, Dèa della Natura Selvaggia, delle danze
estatiche e del ramo sacro, Signora delle Belve; Persefone, Dèa
della Morte e della Rinascita, Signora del Mondo Infero, in cui si possono
riconoscere sia l’Aldilà, sia l’immaginario sia l’inconscio;
Ecate, «trimorfa e quasi onnipotente», Sovrana degli Inferi,
Dèa della Tenebra, delle Porte e dei Trivi, antica più ancora
di Persefone; Afrodite, Dèa dell’Amore, possente quasi quanto
Ecate, alla quale è talvolta affine; Kirke, Signora degli Animali,
della Metamorfosi e dei Morti.
Figlia e sacerdotessa della Grande Dèa polinomica dalle numerose
epifanie, la donna ne custodisce i poteri e gli attributi, incarna la
metamorfosi e il rinnovamento in armonia con i cicli della Natura, è
dispensatrice di vita, d’amore e di conoscenza, nonché d’ispirazione
poetica e profetica: «la donna sola era fatta per attingere la divinità
ed incarnarla» (2). In sé, ella custodisce l’Armonia
e l’Altrove, a cui accede tramite il ritrovamento e la riscoperta,
nella Dèa, di se stessa e delle proprie armonie: «la dèa
porta in sé la donna, come la donna porta in sé la dèa»
(3). La donna, dunque, è specchio agli occhi dell’uomo, che
ne è attratto, e al tempo stesso atterrito, giacché ella
incarna, prima ancora che rappresentare, tutto ciò che lo attrae
e lo atterrisce.
GORGO: sguardo e maschera
«Before ever land was,
Before ever the sea,
Or soft hair of the grass,
Or fair limbs of the tree,
Or the flesh-coloured fruit of my branches, I was, and thy soul was in
me.»
Algernon Charles Swinburne, «Hertha»
Esiste
una divinità che è l’altro volto della Grande Dèa,
come anche «l’altro aspetto della bella Persefone» (4).
A lei, Athena, nell’osservare il proprio riflesso nell’acqua,
si vide, con orrore, somigliante. È una dèa che fu decapitata
da colui che ne guardava il viso riflesso da una lustra superficie: un
guerriero la cui ombra riflessa sul mare fu successivamente azzannata
da un mostro marino. Questa dèa è Gorgo, il cui volto è
simile a uno specchio, per chi, seppure terrorizzato, osa fissarlo.
Figlie dell’«altero Forco» e di sua sorella, «Ceto
dalla bella guancia», divinità degli abissi marini e terrestri,
le Gorgoni, «tremende e innominabili» divinità marine,
«avevano teste avvolte da scaglie di serpenti, zanne grosse come
quelle dei cinghiali, mani di bronzo e ali d’oro, con cui potevano
volare. Steno, il cui nome richiamava la forza, ed Euriale, appartenente
al vasto mare, erano «immortali e prive di vecchiaia». Medusa,
la sovrana, era invece mortale. Tramutavano in pietra coloro che le guardavano»,
e dimoravano «lontano dagli dèi e dagli uomini», «al
di là dell’Oceano famoso, sul confine ultimo della notte,
dove stanno le Esperidi dalla voce armoniosa» (5), ovvero nel mondo
infero e tenebroso, in cui, anziché trovare silenzio, si udivano
le «grida raccapriccianti» delle «schiere infinite dei
morti» (6).
L’alterità radicale, pura e assoluta di questo mondo, al
quale i vivi non possono accedere, se non eccezionalmente, come pure la
confusione della Notte, l’orrore della Morte, il terrore primordiale
e immotivato del Numinoso, ma anche l’estasi che la possessione
infera produce, sono rappresentati da Gorgo, testa isolata che nessun
essere umano può guardare senza morire all’istante. Oltre
«sentieri sperduti e impervi», oltre «orridi nell’intrico
di foreste», presso la sua dimora, «qua e là in mezzo
ai campi, nei sentieri», si vedevano «figure di uomini e belve
mutati da esseri vivi in granito» per averla vista (7). La sua testa,
il suo volto, debbono essere paragonati a una maschera, simile a quelle
che rappresentavano Ecate, e in suo onore si affiggevano. Essa era inoltre
ciò che, come loro volto proprio, portavano al collo Artemide e
Demeter Erinys (Demetra adirata). In essa, nel suo volto, come nello specchio,
s’incrociano e si confondono gli opposti: maschile e femminile,
giovane e vecchio, bello e brutto, umano e bestiale, celeste e infernale,
divino e umano.
Dunque, Gorgo dimora nel mondo infero, accanto a Stige, Echidna e Cerbero.
Come quest’ultimo, ella sorveglia le frontiere del regno di Persefone,
ma non per impedire ai morti di uscirne, bensì per proibirne l’accesso
ai vivi. Infatti, il vivo che voglia varcarne la soglia deve guardarla
in faccia e diventare come lei: una testa tronca e mostruosa, ammantata
di tenebre, simile a un’ombra o ad un riflesso in uno specchio:
una testa di morto. Per il «verde orrore» che la «lucente
Persefone» gli mandasse incontro dall’Ade la sua testa pietrificante,
la quale annullava ogni identità, anche nella morte, Odisseo fuggì
dall’«ombra nebbiosa» del mondo infero, in cui era sceso,
vivo, seguendo le istruzioni di Kirke, per interrogare «le stirpi
dei morti» (8). Specchio e maschera, Gorgo è simbolo dell’uscita
da sé e dell’accesso all’Altrove, che può essere
catabasi iniziatica, mediante l’invasamento e l’estasi erotica.
La sua maschera rappresenta lo spirito del defunto, e la si indossa per
mimare la potenza del mondo infero, estraneo tanto al mondo divino quanto
al mondo umano.
Per simulare il «funereo lamento» che stillava con «luttuoso
travaglio» dai «capi di vergini e dalle teste inaccessibili
dei serpi» delle «violente Gorgoni», quando Medusa «dalle
forti gote» fu uccisa da Perseo, la dèa Atena fabbricò
il flauto (9). Chi ode o crede di udirne le note, che sono i suoni spaventosi
del mondo infero e dell’Altrove, sprofonda nell’entusiasmo,
nell’estasi, e si abbandona a una trance furiosa in cui è
invasato dalla divinità, la quale gl’impone la maschera della
possessione e lo monta come una cavalcatura, trascinandolo nel delirio.
È la musica del terrore soprannaturale, la musica della Gorgone,
anguicrinita figlia della Notte, dallo sguardo pietrificante. È
la possessione di Ecate, dèa della Luna Nera, spesso evocata con
il nome di Gorgo. Invaso dal terrore che ascende dal mondo infero, il
posseduto danza all’orribile melodia del flauto, mimando la Gorgone,
di cui indossa la maschera, e trasformandosi in essa, cioè in una
potenza dell’Altrove.
Come uno specchio, la maschera di Gorgo rivela se stesso a chi la guarda,
nella verità della propria immagine riflessa: il viso stravolto
dell’invasato che danza nell’estasi terrifica [del terrore]
alla musica infernale. Esige che la si guardi negli occhi, restandone
affascinati, come dall’ombra o dal riflesso da cui non ci si può
staccare, privati della vista e pietrificati dal terrore, smarriti nello
sguardo alieno, accecati dal fulgore della Notte, spossessati di se stessi
e posseduti dalla divinità, nella fusione e nella distanza del
contatto intimo, come nell’amplesso degli amanti, proiettati e trasformati
nel mondo che la divinità medesima governa, ovvero l’orrore
terrificante dell’alterità radicale del mondo infero, il
soprannaturale che è nell’umano: l’Altrove, in cui
ci si identifica diventando pietra, e da cui si è posseduti. Allora
Gorgo si specchia in chi la osserva e si riconosce nel proprio doppio,
l’umano divenuto fantasma.
Come la maschera di Gorgo riflette l’Alterità con cui ci
si identifica attraverso un incrocio di sguardi che pietrifica, così
lo specchio riflette colui che guardandosi diviene altro da sé,
qualcosa di enigmatico e di misterioso, come l’ombra, il fantasma,
il doppio. Attraverso lo specchio, ci si riconosce e ci si ritrova, purché
ci si divida, ci si distanzi da sé; si appaia a se stessi come
esterni, estranei, altri. Così lo specchio è illusione,
apparenza, e al tempo stesso la realtà dell’Altrove, «una
potenza demoniaca e soprannaturale» (10). È una porta sull’ignoto,
attraverso la quale ci si sdoppia e si diviene affini all’Altrove,
cioè si vive l’esperienza essenziale, la quale consiste nel
divenire altro da sé.
Qualcosa di analogo avviene nell’amore. Il delirio erotico è
una forma di follia divina, ovvero di possessione da parte di una potenza
soprannaturale (nonché di iniziazione ai Misteri). Quando gli amanti
si guardano, e il flusso erotico scorre dall’uno all’altra
attraverso gli occhi, l’uno si vede riflesso nella pupilla dell’altra
come in uno specchio, vede se stesso attraverso l’altra, si perde,
diviene altro da sé, si vede trasfigurato nell’altra come
in uno specchio che non mostra il riflesso, bensì il volto della
divinità da cui si è posseduti, l’alterità
assoluta che si nasconde nel profondo, e che trasfigura gli amanti, illuminandoli
con lo splendore dell’Altrove, con la luce e l’immagine della
Bellezza. Così, per ritrovare se stessi attraverso l’amore,
occorre perdersi nell’altro. Per l’uomo, questo significa
perdersi nell’Altrove e nel Numinoso attrraverso la donna, ossia
perdersi nella donna. Allorché il patriarcato prevale, quando l’armonia
è infranta, tanto che il rinnovamento non appare più possibile,
e perciò questa esperienza di smarrimento per giungere a ritrovarsi
risulta spaventevole, annichilante, la donna appare all’uomo come
una minacciosa incarnazione dell’annientamento. Non più una
dèa della vita, bensì un demone della morte.
LILITH: capigliatura e seduzione
«First life on my sources
First drifted and swam;
Out of me are the forces
That save it or damn;
Out of me man and woman, and wild-beast and bird; before God was, I am.»
Algernon Charles Swinburne, «Hertha»
Un
tempo, narra una leggenda ebraica, una donna appese nella camera della
figlia uno specchio proveniente da una casa infestata dai demoni, in cui
aveva preso dimora una figlia della dèa Lilith. Allora la ragazza,
che aveva i capelli neri ed era un po’ civetta, iniziò a
guardarsi continuamente allo specchio, e in tal modo fu attirata nella
tela di Lilith. Ogni specchio, infatti, è una porta sull’Altrove,
che conduce direttamente alla grotta, in cui la stessa Lilith dimora da
quando ha abbandonato per sempre Adamo e il Giardino dell’Eden.
Laggiù, l’antica divinità gioisce dei propri amanti
demoniaci. Allorché gli innumerevoli demoni da lei generati desiderano
entrare nel mondo umano, non devono fare altro che passare attraverso
lo specchio più vicino.
Nella mitologia babilonese, Lilith, donna della desolazione, frequentatrice
di luoghi desolati, è associata all’albero, al serpente e
all’uccello, i quali rappresentano rispettivamente la conoscenza,
il male, e la fuga mediante il volo. Persino la regina del cielo, Inanna,
nel cui giardino, equivalente del Giardino dell’Eden, si trovano
l’albero, il serpente, l’uccello e il demone, ha paura di
lei, spirito del vento, scatenatrice di tempeste e di uragani, che pure
è stata vista anche come equivalente dell’antica dèa
sumera, scacciata dal nuovo dio del patriarcato.
Il nome Lilith potrebbe derivare dal babilonese Lilitu, a sua volta derivato
da lulu o lulti, «lascivia». Secondo la tradizione rabbinica,
invece, deriva dall’ebraico lailah, ovvero «notte».
Dunque la dèa è associata al desiderio e alle tenebre (11).
In un antichissimo bassorilievo che la raffigura, è accostata all’anello
e al bastone (simbolo di giustizia, ma anche dell’eros), nonché
alla civetta, «uccello notturno» dallo «sguardo mortifero»
e dalla «vista infallibile», che «naturalmente presiede
la morte e gli inferi», e simboleggia il volo notturno. Connessa
alla morte, al presagio di morte, alla distruzione, ma anche alla saggezza,
ai poteri oracolari e ai poteri apotropaici, essa è dunque la Dèa
Civetta, epifania della Dèa della Morte (12). Nel simbolismo arcaico,
questa dèa è talvolta raffigurata con «una vulva al
centro», ed è spesso accoppiata al serpente, proprio come
lo è Lilith. I suoi occhi rappresentano la rigenerazione (13).
Di solito, Lilith appare priva di ali, con i capelli sciolti, lunghi e
seducenti, simbolo di saggezza, di femminilità, di fascino irresistibile.
È bellissima e nuda, con il seno prominente, i genitali molto evidenti,
le caviglie ingioiellate. Talvolta appare invece alata. Comunque, è
antichissima, ha molti nomi e può assumere molte forme.
In tutte le tradizioni è un demone, talvolta «moglie»
o parte femminile, corporea, di Samael, equivalente di Satana. Soltanto
nell’«Alfabeto di Ben Sira», un testo probabilmente
parodistico, si narra che ebbe origine dalla terra, come Adamo, a lui
eguale e da lui autonoma. Quando Adamo volle giacere sopra di lei, pretendendo
di esserle superiore, ella ribatté di essergli eguale, in quanto
creata dalla terra, proprio come lui. Dopo un litigio senza conciliazione,
Lilith pronunciò il Nome ineffabile e s’involò nell’aria,
fuggendo.
Se si può immaginare che in epoca arcaica la donna fosse sovrana
nella comunità, o che la dèa, procreatrice in assoluta autonomia,
oppure attraverso la ierogamia, fosse la «somma divinità»,
e che «l’elemento maschile divino» fosse rappresentato
esclusivamente da «soggetti paredri»; e che dunque, esprimendo
la propria sovranità, la donna, o la dèa, sedesse «divaricatissima
sopra il paredro supino», ovvero che l’uomo fosse disteso
sotto la donna nell’amplesso (14); allora si può forse immaginare
che Lilith, nell’accosciarsi sopra l’uomo, affermasse soltanto
la propria primordiale sovranità, in quanto donna, o dèa,
o sacerdotessa incarnazione della dèa, e che Adamo, pretendendo
di stendersi sopra di lei, si ribellasse alla propria funzione di paredro,
nella pretesa di usurpare il ruolo dominante.
La sua dimora si trova presso le porte del Giardino dell’Eden, oppure
negli abissi marini, nelle città subacquee, e Lilith sale o discende
nel mondo allorché la luna è calante e la luce si affievolisce.
Assume forma umana, si abbiglia e si orna come una prostituta, attende
agli angoli delle strade, adesca gli uomini. Li abbraccia e li bacia,
li induce a bere vino avvelenato, giace con loro, e poi, al loro risveglio,
li uccide. Oppure, in forma di succubo, appare nei sogni e nelle visioni
degli uomini soli, si unisce a loro, s’impregna delle loro polluzioni,
e genera demoni, i quali, in forma d’incubi, si uniscono alle donne
umane e generano altri demoni. Visita i bambini che meritano di essere
puniti a causa delle colpe dei loro padri, sorride loro, li uccide, e
ne assorbe lo spirito. Oppure attende il parto accanto alle gestanti e
strangola i neonati.
Nella leggenda ricordata più sopra, si narra che un giorno la figlia
di Lilith scivolò fuori dello specchio in cui dimorava, entrò
attraverso i suoi occhi nella ragazza che vi si ammirava in continuazione,
la possedette, e ne destò il desiderio, inducendola a frequentare
liberamente i ragazzi del vicinato. Sebbene il racconto non sia troppo
esplicito, e descriva l’indole della ragazza (una «civetta»)
come tendenzialmente lussuriosa, nonché il suo comportamento come
immorale, è evidente che l’influenza di Lilith, e della sua
«demoniaca» figlia, induce la giovane donna a prendere coscienza
della propria sessualità e a viverla liberamente e spontaneamente,
ribellandosi alla morale patriarcale, da cui perciò è condannata
come lasciva e immorale. Per questa ragione la ragazza scandalizza, spaventa,
e al tempo stesso attrae gli uomini, proprio come Lilith, che la «possiede»
attraverso sua figlia.
Sebbene compaia in una leggenda relativamente recente, anziché
nelle fonti antiche, l’associazione fra Lilith e lo specchio, quale
accesso alla grotta dei demoni, e dunque porta sull’Altrove, appare
del tutto corretta, proprio perché rimanda all’Altrove quale
si è tentato di definirlo, ovvero tutto ciò che attrae e
al tempo stesso spaventa l’uomo patriarcale, cioè, principalmente,
la donna, soprattutto se vive liberamente la propria sessualità.
E se, come scrive Ada D'Ariès, in «tempi remoti la sessualità,
intesa ovviamente in modo sacro e non in modo profano, era considerata
la più evidente manifestazione, anche se non certamente l’unica,
della Dea nel corpo e nell’anima delle donne» (15); e se l’energia
sessuale «era considerata una forza magica potentissima, dato che
essa era ritenuta la causa della generazione dell’universo e del
mondo in ogni suo aspetto» (16); e se i «centri genitali»
delle donne «erano quindi paragonabili a delle grotte od a delle
sorgenti sacre dalle quali, per mezzo di riti misteriosi e segreti, esse
davano origine a delle buone e sante energie che si diffondevano nel mondo»
(17); allora ciò che attrae e al tempo stesso spaventa l’uomo
patriarcale, e che Lilith simboleggia, è anche la sacralità,
la divinità della donna e della sua sessualità: l’immaginabile
arcaico rapporto armonico con la donna, la sessualità, la natura,
il mondo, il divino, di cui la razionalità e l'organizzazione sociale
patriarcali, simboleggiate da Odisseo, hanno anticamente iniziato la distruzione,
oggi perfezionata.
Così, in quanto demoniacamente bella, lussuriosa, seducente e assassina,
ossia in quanto simbolo della divinità femminile e della libera
sessualità femminile, quali appaiono agli occhi dell’uomo
patriarcale, che, al pari di Perseo, vorrebbe possederla senza temerla,
oppure, in altre parole, soggiogarla o persino ucciderla, Lilith è
la progenitrice della femme fatale, e come tale viene raffigurata e descritta
da Dante Gabriel Rossetti nel dipinto «Lady Lilith», oltre
che nel sonetto «Lilith», successivamente reintitolato «Body’s
Beauty».
LADY LILITH: avvento della Donna Fatale
« Beside or above me
Nought is there to go;
Love or unlove me,
Unknow me or know,
I am that which unloves me and loves; I am stricken, and I am the blow.»
Algernon Charles Swinburne, «Hertha»
In un ambiente adorno di rose bianche, simbolo di passione sterile, e
di papaveri, simbolo di morte, uno specchio, collocato in alto a sinistra,
rivela o riflette quello che sembra un bosco magico: un luogo liminare,
situato sulla soglia fra veglia e sogno, Aldiqua e Altrove.
Qui, una donna infinitamente sensuale, personificazione della bellezza
fisica e dell’amore divino e umano, è intenta ad ammirarsi
estaticamente in uno specchio, con la stessa intensità con cui
affascina irresistibilmente gli altri. Con la sua assoluta indifferenza
allo sguardo maschile, che la contempla affascinato, ella rivela di non
essere affatto sottomessa, pur senza essere aggressiva come il succubo
della tradizione antica. La chioma è folta, lunga, abbondante e
sciolta. La veste, che pare avvolgere a stento il corpo, sembra in procinto
di essere tolta. L’assenza evidente del busto, che avrebbe una doppia
funzione di costrizione fisica e morale, dimostra che Lilith è
sessualmente libera, incurante delle convenzioni sociali e morali, le
quali impongono alla donna di reprimere la propria sessualità.
I papaveri e le rose, la digitale sulla toletta, piante che fioriscono
in stagioni diverse, manifestano la sua profonda affinità con la
Natura selvaggia.
Forse, mentre Lady Lilith, donna eccezionale dell’età vittoriana,
contempla il riflesso che le restituisce l’immagine della propria
bellezza e della propria sessualità, l’antica dèa
Lilith lascia attraverso lo specchio l’Altrove in cui dimora, e
attraverso gli occhi entra in lei e la possiede, come accade alla ragazza
della leggenda ebraica. O forse, scrutandosi nello specchio, la donna
entra in se stessa, s’immerge nella luminosa e limpida superficie
riflettente, si addentra nell’Altrove in essa stessa contenuto,
e poi, esplorandolo, giunge all’anima arcaica che ancora custodisce
nel profondo del proprio immaginario, del proprio inconscio, del proprio
mondo infero. Allora incontra Lilith, e riconosce in se stessa la Dèa.
In ogni caso, invasata o guidata da Lilith, aspetto della Grande Dèa,
si riappropria di se stessa, del proprio corpo, della propria sessualità,
della propria autonomia, e ritrova il contatto con la Dèa, rinnovando
se stessa e ravvivando il proprio magico potere.
Fiera e forte, indifferente, per nulla sottomessa, Lady Lilith rifiuta
il ruolo di moglie, e di oggetto sessuale in genere, che la società
maschile vorrebbe imporle, perciò è vista come strega, donna
demoniaca, femme fatale. Giacché pone in dubbio l’identità
del maschio, il suo desiderio e il suo rapporto con l’altro, cioè
con la donna, ella costituisce una minaccia per il maschio medesimo, in
cui suscita al tempo stesso un desiderio irresistibile, e la paura della
cattura, della castrazione, della morte.
Come quella dell’arcaica divinità, la chioma sciolta di Lady
Lilith simboleggia una sessualità esuberante, lussuriosa, e dunque
un irresistibile potere di seduzione, riflesso della sacralità
e della divinità ritrovate. Richiama inoltre il serpente, cui Lilith
è connessa fin dalla più remota antichità, e la sua
simbologia, che rimanda anche al Giardino dell’Eden e al cosiddetto
«peccato originale», ma soprattutto alla divina e libera sessualità
femminile (18).
Nel sonetto «Lilith», composto dallo stesso Rossetti nel […],
la chioma seducente e serpentina strangola un giovane, forse Adamo, il
cui sguardo arde di lussuria e di collera perché Lilith ha rifiutato
di giacere sotto di lui. Agli occhi del maschio frustrato, i capelli sono
qualcosa di vivo, che attira, affascina, avviluppa, imprigiona, e infine
strangola, lasciandolo «col collo piegato», ovvero castrato,
se non morto.
In altre parole, l’uomo, terrorizzato dalla sacralità femminile
che risorge, riesce a percepire e a concepire soltanto quale causa di
castrazione e di morte l’esperienza di estasi ineffabile e insuperabile
dell’amore con una donna come Lady Lilith, bella e fiera, forte
e seducente, voluttuosa, consapevole di se stessa e del proprio potere.
Tuttavia, la castrazione e la morte si dovrebbero forse interpretare,
in questo caso, in senso metaforico, simbolico, psicologico, piuttosto
che letterale, ovvero come immagine patriarcalmente distorta del riscatto
della donna, inteso non soltanto in senso storico e sociale (inizio dell’emancipazione
femminile), bensì anche, se non soprattutto, in senso divino e
sacrale.
Volto notturno e spettrale della Dèa, Gorgo ne è innanzitutto
l’occhio, lo sguardo del Numinoso, dell’Alterità assoluta
che attrae, atterrisce, pietrifica. È lo stesso sguardo, dotato
del potere di affascinare e di paralizzare, che caratterizza altre epifanie
della Dèa a lei equivalenti, ovvero Medusa, sua «maschera
di bellezza», la cui chioma serpentina simboleggia la crescita lussurreggiante
della Natura e la cui smorfia rappresenta il riso femminile temuto dal
maschio; Kirke, personificazione della sensualità, della ferinità,,
della perenne metamorfosi immanente alla Natura selvaggia; e Lilith, associata
anche per lo sguardo ipnotico e seduttivo al serpente, nonché alla
vampira, in quanto vista come personificazione della paura ispirata al
maschio dal corpo e dalla bellezza femminili.
Lo stesso sguardo che affascina e impietrisce rivela nella femme fatale
una moderna incarnazione di queste divinità, cioè una moderna
epifania della Grande Dèa, simbolo dell’oscuro e terribile
mondo ctonio, di cui la sua gelida bellezza è metamorfosi, nonché
della Natura selvaggia e incontrollabile, sempre vicina, sempre incombente,
sempre allignante sia nel mondo esterno totalmente artificiale, come le
erbe selvatiche che spaccano il cemento e l’asfalto, sia nel mondo
interiore, con le pulsioni dell’istinto, dell’inconscio e
dell’immaginale che premono contro la corazza della repressione
che vorrebbe estinguerle definitivamente.
OCCHI DEL NUMINOSO: immagini muliebri
in pittura e poesia
« I the mark that is missed
And the arrows that miss,
I the mouth that is kissed
And the breath in the kiss,
The search, and the sought, and the seeker, the soul and the body that
is.»
Algernon Charles Swinburne, «Hertha»
Poiché
la femme fatale, donna e dèa, rappresenta ai suoi occhi
ciò che egli stesso teme, insieme a ciò che desidera, l’uomo
le attribuisce in accezione esclusivamente negativa tutte le caratteristiche
di naturalità, fisicità, istintualità, irrazionalità,
sensualità, attribuite un tempo a streghe divine come Circe e Morgue,
riassumendole nel potere di ridurre l’uomo, tramite la seduzione,
ad animalità irrazionale. La donna ispiratrice diviene tentatrice,
la creatrice di tutte le cose diventa schiava, dotata unicamente di bellezza
fisica, ingannatrice e seducente, mero oggetto di piacere. In questa distorsione
della donna e delle sue qualità si può riconoscere una visione
negativa dell’Altrove simboleggiato dallo specchio, ossia di tutto
ciò che la donna personifica perché ha con esso una connessione
essenziale: la Natura, il corpo, l’immaginario, l’inconscio,
l’istinto, il ciclo di morte e rinascita, e il Numinoso, cioè
la Dèa. Questo è anche tutto ciò che l’uomo
patriarcale teme, perché da tempo immemorabile ha perso con esso
ogni contatto naturale.
La sessualità e la voluttà, il corpo e i sensi, in quanto
manifestazione più evidente (19) della Dèa e del rapporto
arcaico con il Numinoso che sono personificati nella donna, sono visti
dall’uomo patriarcale come degradazione a istintualità ferina
e cedimento alle più vili passioni carnali, lussuria,vizio e meretricio,
in opposizione alla ragione e all’assennatezza, le quali dominano
e sconfiggono gli appetiti più ignobili. Ad esempio, l’erba
moly ricevuta in dono da Hermes, che permise ad Odisseo di non abbandonarsi
interamente e magicamente all’amore di Circe (ossia gli consentì
di godere del corpo di lei senza fondersi alla sua anima e senza passare
nel magico Altrove della Dèa, che è anche quello di Morgue
nella Val Sans Retour, nonché il meleto avaloniano di «Eden
Bower», poesia di Rossetti a cui si allude più sotto), rappresentava
per Marsilio Ficino (20) la virtù che salva l’anima dai veleni
della voluttà, i quali trasformano l’uomo in bestia, condannandolo
a una miserevole esistenza ferina.
La seduttività della femme fatale, specchio in cui l’uomo
patriarcale e represso vede riflesse tutte le caratteristiche della vita
da lui stesso sentite e giudicate come negative, suscita comunque paura,
ma la paura produce reazioni diverse: ammirarla, lasciarsene affascinare
e dominare, castrare, annientare o uccidere; oppure non guardarla direttamente,
e desiderare di reprimerla, di sottometterla, o di ucciderla, nel modo
in cui Perseo uccise la Gorgo mortale, Medusa, la «sovrana»,
divinità marina dal «bel volto» come sua madre Ceto,
anzi, «di eccezionale bellezza», tanto da essere stata «desiderata
e contesa da molti pretendenti». In tutta la sua persona, nulla»
era stato «più splendido dei suoi capelli», prima che
ella subìsse una sorte simile a quella di Persefone, di cui era
«l’altro aspetto», cioè prima che fosse «rapita
tra i fiori primaverili da un dio oscuro», ovvero Poseidone, e di
essere da questi violata in un tempio di Athena, e prima che «la
casta figlia di Giove» le mutasse i capelli «in ripugnanti
serpenti», affinché «il fatto non restasse impunito».
Per uccidere Medusa, l’eroe Perseo, chiamato anche Eurimedonte,
cioè «sovrano del mare», quasi che fosse stato anche
sposo di Gorgo, le si avvicinò con l’inganno, «mentre
un sonno pesante gravava sui serpenti e su lei stessa», assistito
dalla dèa Athena, e nel tagliarle la testa con una spada falcata,
antica arma di nome «harpe», ricorse a uno stratagemma per
evitare di guardarne il viso, simile ad una maschera: girò la testa
e ne cercò il collo a tentoni, guidato dal Fato, oppure da Athena;
o forse si aiutò guardandone «l’orrenda immagine»
«riflessa nel bronzo» lucente di uno scudo, che la stessa
Athena gli aveva donato, e che forse lei medesima resse per lui (21).
Comunque, l’uomo patriarcale disprezza e demonizza la femme
fatale come vampira seduttrice. In quanto tale, ella è molto
spesso vista e rappresentata, nell’arte e nella poesia, anche quale
immagine della divinità e del soprannaturale, simboleggiati pure
dalla maschera e dallo specchio.
Il sonetto «Lilith», reintitolato «Body’s Beauty»
e accostato da Rossetti a un altro suo sonetto, «Soul’s Beauty»,
può riflettere la visione della femme fatale come Musa, personificazione
della bellezza artistica e dell’ispirazione poetica, nonché
l’atteggiamento ambivalente del poeta e dell’artista nei confronti
del riscatto della donna: riscatto che appare non meno attraente e minaccioso
della donna stessa e della sua bellezza.
Nella prospettiva del contrasto e della tensione fra Bellezza dell’Anima
e Bellezza del Corpo, la voluttà e l’avvenenza assumono un
carattere problematico, che induce gli artisti a interrogarsi sulla funzione
dell’arte e sul suo potere incantatorio, riflesso nei poteri soprannaturali
della femme fatale, i quali affascinano pericolosamente le vittime
maschili. I poteri soprannaturali sono a loro volta il riflesso dei poteri
della sessualità femminile, manifestazione del Numinoso, visti
dal maschio patriarcale, che ne è affascinato e al tempo stesso
atterrito, come potenzialmente pericolosi, in quanto intrinsecamente malvagi.
Le stesse modelle che offrono le loro forme alla femme fatale, sono viste
dagli artisti come seduttrici che li incantano e li irretiscono. Si crea
così un incrociarsi ininterrotto d’influssi reciproci fra
l’arte, il suo farsi e la sua ispirazione. La stessa opera d’arte
esercita con la propria bellezza un potere di seduzione su chi la contempla
o la legge, sulle Muse che la ispirano, sugli artisti e sui poeti che
la creano. Dunque, la bellezza artistica può incarnare le ambiguità
e le contraddizioni della seduzione e della femme fatale.
Allorché l’uomo non è più in grado di percepirne
la divinità e la sacralità, la bellezza e la sessualità
femminili, nonché l’incanto che esse esercitano, appaiono
demoniache, pericolose e minacciose, suscitando pulsioni di dominio o
di sottomissione, che sfociano nell’annientamento della donna, o
dell’uomo. Sempre nella prevaricazione, mai nell’armonia.
Tuttavia, l’ambivalente punto di vista maschile con cui Rossetti
rappresenta Lilith come femme fatale, ovvero come donna e dèa
al tempo stesso, irresistibilmente attraente e infallibilmente letale,
dispensatrice di piaceri ineffabili e di morte, apre e introduce nella
rappresentazione della donna una contraddizione e una complessità,
che a loro volta dischiudono uno spazio immaginale, operando nel quale
la donna moderna ha la possibilità, reinterpretando e modificando
le immagini muliebri attraverso l’arte e la poesia, di riacquistare
coscienza della propria sessualità e di viverla in autonomia, riscoprendo
in se stessa, così, la propria sacralità e la propria divinità.
Non è un caso se, rivisitate in prospettiva maschile come donne
fatali nell’arte e nella poesia preraffaellite, decadenti e simboliste,
riemersero dalle nebbie dell’antichità e del medioevo le
divinità femminili arcaiche, come Kirke e Lilith, come pure le
Dame della Materia Bretone, ovvero seduttrici che in origine non sono
castratrici, bensì iniziatrici: soltanto con il loro aiuto e con
il loro dono è possibile superare l’iniziazione, che attraverso
la catabasi conduce alla rinascita, nonché accedere alla sovranità,
compiere la ierogamia, contemplare il Graal, fondersi alla natura e alla
divinità, vedere oltre, passare altrove, ricevere il dono del canto
che consente di dare forma poetica a tale esperienza essenziale. Anche
così, riemerge nell’arte la divinità femminile e si
apre la strada all’arte delle donne, come pure alla successiva riscoperta
della divinità femminile da parte delle donne medesime (22).
D’altronde, il ritorno della Dèa offre all’uomo l’occasione
per riscoprire in se stesso, al cospetto della femme fatale, cioè
della donna moderna che ha ritrovato la propria divinità, il panico,
ovvero il timore reverenziale che giustamente paralizza al cospetto del
Numinoso, vissuto non come castrazione, bensì come esaltazione
divina.
La paura ha qualcosa in comune con l’amore. Non deve soltanto essere
superata, bensì deve essere vissuta, giacché laddove si
trova il panico, là si trova Pan, il quale «si rivela con
la saggezza della natura» (23). Il panico conduce all’inconscio
e all’ignoto, a sentire come vivi la natura e il mondo, a parteciparvi,
e mediante il vincolo dell’istinto con l’immaginazione, a
percepire il Numinoso attraverso figure di dèi. È «la
saggezza del corpo che entra in connessione col divino» (24).
Il nodo da sciogliere è quello che avvince il desiderio al timore,
e soprattutto i modi in cui si desidera e si teme, la reazione all’immagine
che si vede riflessa nello specchio, che sia il volto di Gorgo o lo specchio
di Lilith. Tutto dipende da come l’uomo si accosta al mistero muliebre,
di cui lo specchio è simbolo: come paredro animato da timor panico;
o come ribelle che aspira a stendersi sopra, per dominare.
L’uomo che al cospetto della donna desidera invece esserne disinibito,
esaltato, trasportato altrove, elevato, divinizzato, fuso alla natura
e al Numinoso, ne prova timor panico, ovvero il timore e il rispetto che,
insieme a un desiderio e a un’attrazione irresistibili e al tempo
stesso paralizzanti, si provano al cospetto della divinità, quando
si teme di restare accecati dalla bellezza, oppure ammutoliti e paralizzati
come Menelao allorché Elena si scopre il seno.
Fissare in viso Gorgo significa guardare nello specchio fino a comprendere
e ad accettare tutto ciò che mostra e tutto ciò che simboleggia,
fissare la bellezza e il soprannaturale restandone pietrificati e inebriati,
e vedere oltre la paura, che è anche adorazione, dell’intimo
mistero muliebre. E chi vive questa esaltazione panica, l’uomo paralizzato
dall’adorazione e dall’amore per la divinità femminile,
non ha paura di Lilith né dello specchio, anzi, agogna di unirsi
a lei, e segue il suo invito ad entrare nello specchio, porta per chi
sia abbastanza libero e audace da passare oltre, e lo varca per addentrarsi
gioiosamente nell’Altrove, come chi si addentra nella Val Sans Retour
per essere accolto da Morgue: un Altrove accogliente, non più percepito
come ostile, malefico, distruttore…
Così lo specchio riappare come porta, soglia, simbolo di ricerca
interiore per appressarsi alla consapevolezza dell’Altrove, mistero
che la donna incarna. Per accedervi, l’uomo deve passare per la
sua porta, ritrovare il timore reverenziale di Pan, stendersi sotto la
Dèa, passare Altrove, ritrovarlo e accettarlo dentro di sé.
Si ritorna in tal modo ai significati dell’Altrove accennati all’inizio,
personificati o simboleggiati dalla donna e da numerose divinità
femminili, alcune delle quali connesse allo specchio.
In un’altra poesia di Rossetti, «Eden Bower», gli uomini,
affascinati da una donna divina, irresistibilmente bella e seducente,
che potrebbe essere Lilith o Morgue, accettano il suo dono, la mela, ed
entrano nel meleto, che è il suo regno, un Altrove, e beneficiano
dell’impareggiabile estasi d’amore che ella offre. E nel suo
regno rimangono, ormai incapaci, e per nulla desiderosi, di tornare nel
mondo, perché dopo il magico arresto del tempo causato dal piacere,
dopo l’amore perfetto, dopo l’estasi suprema dell’amore
divino della donna, nulla è più possibile, se non la morte.
APPENDICE:
Una visione
« I travel through mirrors, through night
I fly with the screech owl and the bat»
Sylvia Chong, «lilith»
Immaginare equivale forse a ricordare. Come in sogno, Lilith appare oggi
in una foresta di libri, in cui è diffusa una pallida luce d’oro
antico. All’esterno, il vento grigio rinforza nella luce grigia.
I lunghi capelli foschi nascondono il viso chino sopra il libro aperto,
color indaco, che ella tiene fra le mani pallide. Simile a un fluttuante
occhio disincarnato, egli la osserva, solo e remoto. Allora Lilith, lentamente,
solleva e gira la testa. La lunga chioma fosca si scosta a rivelare il
viso bellissimo. Gli occhi rifulgono. Le labbra si schiudono lentamente
in un sorriso radioso. Il cieco occhio profano non vede alcunché
d’insolito, ossia non vede nulla, anche se qualcosa di magico forse
avviene. Una luce d’argento dilaga ovunque.
Ogni gesto della sacerdotessa è sacro, e più sacro ancora
del rito è ogni gesto comune, invisibilmente sfolgorante di luce
lunare. Lilith chiude il libro e si avvicina a una specchiera, simile
a un luminoso varco tra le fronde o una cascata d’acqua nella foresta
di libri. Invita sorridendo ad essere seguita e vi s’immerge. Se
il fuoco interiore arde abbastanza da illuminare lo sguardo, e il timore
reverenziale paralizza il corpo, e il tempo si ferma, tramutandosi in
porta aperta sul passato, e lo spirito varca la soglia per passare nel
tempo tramutato in uno spazio in cui il passato è presente, e il
minuscolo è infinito per un attimo e per sempre, allora qualcosa
si distacca e si unisce, la parola tace e il silenzio parla. Egli segue
Lilith, tuffandosi nello specchio come se fosse acqua o come se fosse
aria. Un fremito d’estasi lo pervade. Il tempo si ferma, lo spazio
muta. Egli si trasforma in aria azzurrogrigia.
Luna piena d’argento arde nel cielo blu sopra colli erbosi cosparsi
di foschi boschetti come stelle più fosche del cielo, nel vento
grigio che rinforza. E là vola Lilith in forma di civetta, gli
occhi dorati e le piume d’argento silenti nella grigia brezza notturna,
meravigliosa, infera, bellissima. Divenuto vento grigioazzurro, egli la
segue nel volo notturno sopra il fosco paesaggio boscoso, nella luce d’argento
della Luna piena.
Veloce e al tempo stesso lenta, in forma di civetta, Lilith lo guida fino
ad una radura, e là si trasforma in una sacerdotessa dalla veste
d’argento pallido, una ghirlanda fiorita a trattenere i capelli
corvini. Tocca i meli, una quercia, poi si gira a guardarlo e non sorride,
una cupa luce negli occhi. Egli trema, mentre un’onda sale attraverso
la terra dentro di lui. La luce interiore di Lilith, la pallida veste
d’argento, la testa inghirlandata di fiori, una luce fosca negli
occhi. Allora egli comprende di essere lì per osservare e per ascoltare,
per fiutare e assaporare la folgore e la tempesta, per toccare il corpo
e il potere della Madre, la quale è cielo e terra.
La sacerdotessa cammina in cerchio lungo il cromlech seminascosto fra
l’erba alta, e accoglie in sé la Luna, l’abbraccia,
la pallida veste d’argento, la testa inghirlandata di fiori, una
luce fosca negli occhi, e il suo azzurro amore s’innalza fino alle
nubi nel cielo. La sua sofferenza aduna e addensa le nubi nel cielo e
chiama la tempesta. L’acqua della fonte scorre sulla roccia e sul
muschio. Le giovani sacerdotesse in cerchio sentono la Luna dentro di
loro, nel ventre, arcaico richiamo selvaggio.
Egli è lì per tornare alla Madre, fino a diventarne il figlio,
Pan, dio cornuto nascosto nel fosco verde ad osservare con timore reverenziale
le Ninfe danzare in cerchio intorno alla fontana fluente e il cromlech
fosco nell’erba alta, amorosamente protette dalla Sacerdotessa.
L’amore e il timore reverenziale di lui sono tali che non osa uscire
dalla fosca ombra verde per danzare insieme alle divinità. Dovrebbe
suonare per loro, eppure non ne è ancora in grado. Non è
ancora intero. Non merita ancora il loro amore. Non è ancora del
tutto consapevole di essere figlio della Madre. E così, le osserva
danzare in cerchio con occhi traboccanti di lacrime di dolore e di delizia,
giacché dinanzi a lui è rivelato e celato il supremo mistero
della vita sacra. Il sentiero è parzialmente percorso, e un lungo
cammino ancora lo attende, ed egli è deciso a percorrerlo fino
alla fine, se una fine esiste, e allo stesso modo sente la Luna dentro
di sé.
Nell’osservare ogni gesto della sacerdotessa che celebra il rito,
giacché ogni suo gesto è rito, egli sente in sé con
reverenziale timore la magia dell’acqua, della foresta, della tempesta,
della Luna, della Dèa, delle stelle, e allora la solitudine cessa,
si spegne, si dissolve come lo spiovere del temporale nel silenzio crepuscolare.
La luce azzurra sale dal cerchio di pietre e di sacerdotesse, il vento
grigio rinforza da occidente, e nel cielo, sopra la fonte, sopra la radura,
sopra la foresta, si ammassano le nubi, poi piove, poi cade fragorosa
e ventosa la tempesta, pianto di gioia della Terra e della Madre per il
legame riallacciato, annuncio di vendetta contro il Nulla. La foresta
coprirà tutto e la vita rinascerà.
* Articolo scritto da Alessandro Zabini (alessandrozabini@tin.it)
per Il tempio
della Ninfa,
pubblicato su www.ilcerchiodellaluna.it nel settembre 2008 con il
permesso dell'autore.
Severamente vietata la riproduzione anche parziale senza il permesso dell'autore.
________________________________________________
NOTE
1. Marconi, p. 38.
2. Pestalozza, «Eterno femminino», p. 73.
3. Pestalozza, «Eterno femminino», p. 72.
4. Kerényi, I, p. 51.
5. Esiodo, «Teogonia», 237, 238, 274 ss.; «Scudo»,
230; Apollodoro, «Biblioteca», II, 4, 40.
6. «Odissea», XI, 632-633.
7. Ovidio, «Metamorfosi», IV, 777-781.
8. «Odissea», XI, 34, 155, 633-635; Apollodoro, «Biblioteca»,
II, 4, 2 [41] nota, p. 497.
9. Pindaro, «Pitiche», XII, 11-20, 28.
10. Vernant, p.109.
11. Izzi, p. 217.
12. Gimbutas, «The Language of the Goddess», pp. 190, 324;
«Le dèe viventi», p. 55.
13. Gimbutas, «Le dee viventi», p. 54.
14. Pestalozza, «I miti della donna-giardino», p. 82.
15. d’Ariès, «Alla ricerca della Luna», p. 17.
16. d’Ariès, p. 18.
17. d’Ariès, p. 19.
18. V. D’Ariès, p. 68 n. 10.
19. V. d’Ariès, p. 17.
20. «Hypnerotomachia Poliphili», II, p. 544 n 9.
21. Apollodoro, «Biblioteca» II, 4, 2; Ovidio, «Metamorfosi»,
IV, 781-803; Kerényi, I, 51, 52; II, 60.
22. V. Engelking.
23. Hillman, p. 73.
24. Hillman, p. 73.
________________________________________________
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