Mysterium tremendum:
il mito classico del Labirinto e del Minotauro
La lotta tra Teseo e il Minotauro, particolare
di mosaico, Casa del Labirinto, Pompei
"L'orrore è la parte migliore dell'uomo.
Quanto più il mondo ne rafforza la percezione
Tanto più profondamente egli è turbato dal portento."
Wolfgang
Goethe
"Ci sono grandi cose da fare. Falle!"
Andre
Gide, Thésée
All’ingresso del palazzo di Cnosso c'è il segno del Toro.
Da esso si scende nel regno del segreto, della disperazione, della purificazione,
del ritrovamento di se stessi e della libertà. E laggiù, lungo
i corridoi e sulle pareti delle sale regali, troviamo, ammonitore e crudele,
l'altro segno sacrale della labrys, dell'ascia doppia, arma e simbolo di
potere, scure che uccide la Bestia, giustizia verso destra e verso sinistra,
insegna del Talassocratore; forse, stilizzazione delle due corna del Toro
o, addirittura, della figura umana.
Sin dall'epoca in cui è nata la favola di Minos e del Minotauro,
racchiuso nel labirinto dove, con l’aiuto dell'amore e dell'inganno,
scenderà a cercarlo e a ucciderlo l'eroe solare Teseo, questo simbolo
del Toro-uomo segno di forze ctonie che tentano un'estrema rivolta contro
l'uomo ordinatore, soggetto agli dèi, ma insieme allievo di Prometeo
e dei primi legislatori ha occupato la mente degli uomini, ispirando innumerevoli
poeti, favolisti e pittori.
In effetti, i simboli essenziali dell'uomo e i miti antichi che li esprimono
hanno una forza primigenia che è come radicata nel profondo dell'animo
e continuano a possederlo e commuoverlo anche quando il loro significato
sembra dimenticato, ossia quando quei miti non hanno più, all'apparenza,
la carica sacrale, l'energia religiosa che ne avevano accompagnato la nascita.
Così, la leggenda del labirinto e del Minotauro ha attraversato integra
più di tremila anni di storia. «E forse il racconto più
popolare dell'antichità», dice Samivel (Le soleili se lève
sur la Grèce), «e il suo successo non è certamente
dovuto al caso. In verità, esso contiene un tema mentale di portata
e risonanza universali, un misto di angoscia e di speranza capace di nutrire
una specie di incubo intellettuale prossimo alla pazzia e insieme, su un
altro piano, la meditazione dei saggi. E tutto ciò grazie a una sola
immagine, in fondo alla quale giace 'Qualche Cosa', forse il Mostro, forse
il Tesoro, forse entrambe le cose.» E anche: l'animalità, la
sua tristezza, la sua innocenza, per quanto gravate da una sorte atroce;
ed è un'animalità condivisa dall'umanità. Poiché,
se il Minotauro nacque, innocente e vittima, da un connubio orrendo, perché
deve espiare una colpa non sua? Se tuttavia la deve espiare, nessuno di
noi è, in fin dei conti, né più né meno responsabile
di lui, e quindi nessuno di noi è responsabile: eppure incombe sopra
di noi la stessa Moira.
In effetti; la storia del Minotauro è un mysterium tremendum.
Ci attira e ci respinge. È mirum, è admirandum,
è fascinans; di fronte all'animalità e insieme umanità
del mito, noi siamo colpiti, a un tempo, da tremor e stupor per usare la
terminologia di R. Otto. «Che cos'è ciò che traspare
fino a me e mi colpisce il cuore senza ferirlo? Timore e ardore mi scuotono:
timore per quanto ne sono dissimile, ardore per quanto ne sono simile»
(Agostino, Conf., II, 9,1). Mistero del diverso, incompreso e inspiegato,
alieno e alienante, interamente avulso da quanto ci è familiare e
noto. Pesa sul Minotauro il fato dell'innocente, dell'innocentemente crudele,
dell’essere incolpevole condannato dagli dèi a essere crudele
e insieme a essere colpito per quella crudeltà. Grava su di lui la
colpa di lussuria della madre e del mondo; si manifesta in lui non solo
il destino della bestia - che è quello di essere sacrificata - ma
anche il prorompere della bestialità nell’uomo; bestialità
che, in quanto tale, deve essere punita con la morte: ed è una morte
insieme necessaria e ingiusta. Nel Minotauro infelice, abitatore delle tenebre
inestricabili, confinato in fondo a un inremeabilis error, noi
che forse ci credevamo innocenti veniamo inviluppati in colpe oscuramente
accumulate.
Però, se siamo Minotauro, siamo anche il vittorioso Eroe solare.
Anche a noi Eros ha fatto avere un lungo filo che ci condurrà fino
al mostro, e quando lo avremo vinto con la nostra spada lucente quel filo
ci farà tornare alla luce e lasceremo indietro, nell'oscurità
eterna, il corpo ormai immobile della bestialità debellata. L'amore
ci condurrà sino in fondo, sino alle ultime caverne nascoste dei
nostri sentimenti meno umani e, uccisa l'animalità, ci farà
tornare sotto il cielo lucente. Quale simbolo più bello di questo?
Ma, dopo la vittoria, torna ancora nel nostro cuore sensibile la pietà
per quella morte, per ogni morte; e forse anche una nostalgia per le tenebre
abbandonate, un oscuro sentimento di tenerezza per la vita mostruosa che
abbiamo distrutto in noi e abbandonato. Nella notte in cui è stato
celebrato quel sacrifìcio, il lato infernale del nostro essere piange
sul corpo del mostro. La sua morte lo innalza e glorifica. Ieri, oggi: validità
profonda che è come l'essenza simbolo e segno del mito vivente.
Raccontiamolo per ricordare.
Minos
II mito racconta, dunque, che la fanciulla fenicia Europa, figlia di re
e figlia di Telephane, «la lungisplendente» oppure di Argiope,
«colei dal volto d'argento» fu vista da Zeus Asterios mentre
faceva il bagno con le sue ancelle sulla spiaggia di Tiro. Acceso d'un
amore improvviso e assumendo, per uno degli inganni di cui era maestro,
le sembianze di un toro dal pelo candido e lucente, dall'alito odoroso
di zafferano, il dio, scendendo dal cielo, si inginocchiò davanti
alla principessa, la quale, vedendolo così mite, ne infiorò
le corna e gli salì sulla groppa. Ma il toro, appena sentita la
giovane sopra di sé, si alzò sulle zampe e, tuffandosi nel
mare, fuggì a nuoto con la sua bella preda, portandola sull'isola
di Creta. Secondo una variante. Zeus avrebbe assunto l'aspetto di un toro
per sfuggire alla gelosia di Hera, si sarebbe caricata la giovane sul
dorso e, volando oppure attraversando a nuoto l'Ellesponto - che prese
allora il nome di Bosforo, «portatore del Toro» - l'avrebbe
condotta prima in Asia e poi a Creta. Il dio possedette la principessa
sotto un platano nei dintorni di Gortina; in premio e a ricordo, da allora
quell'albero non perde più il suo fogliame.
E fu sull'isola di Creta che la principessa Europa divenne madre di Minos,
destinato a regnare sulle isole e sui mari, nonché di Reclamante,
saggio legislatore, e del guerriero Sarpedonte. Minos, dopo avere sottomesso
i fratelli, estese il proprio dominio da Creta alle Cicladi e a gran parte
del Peloponneso; e si disse pure che diede un grande incremento all'agricoltura,
all'edilizia, all'ingegneria, ai commerci e alle arti figurative. Conquistato
il regno, Minos sposò Pasifae, «la tutta splendente»,
figlia di Helios, e ne ebbe numerosi figli. Ma Pasifae fu anche interpretata
come una divinità lunare e, come tale, ebbe un culto personale
in Laconia (Plutarco, Agis, p. 91).
Che fosse donna dotata di arti magiche, risulta anche da un'altra leggenda.
Minos era afflitto da una grave malattia, dovuta probabilmente alla gelosia
della consorte. La malattia consisteva nel fatto che non poteva amare
nessun'altra donna perché durante l'amplesso scaturivano dal suo
corpo animali disgustosi: serpenti, scorpioni e millepiedi.
[…] Pasifae gli aveva dato molti figli maschi, tra cui l'ottimo
atleta Androgeo, Deucalione, che sarebbe poi stato padre di Idomeneo,
eroe valoroso nella guerra di Troia, e Glauco. […] Tra le fìglie
di Minos, dobbiamo ricordare anzitutto Arianna o Ariadne (originariamente
Ariagne, «la pura», «la santa»); poi Fedra, «la
splendente», ed Egle, «la luminosa» (una leggenda posteriore
assegnava anche a lei il ruolo di amante di Teseo).
Nulla si opponeva ormai a una vita felice e gloriosa del saggio re, che
percorreva i mari assoggettando al suo potere isole e colonie lontane
e instaurando in ogni luogo la forza della legge. Ma Minos aveva dimenticato
l'invidia degli dèi, sempre pronta a vendicare, più che
a punire; a fare pagare cara ai mortali ogni piccola trascuratezza o trasgressione;
anzi, attenta a trame pretesto per ricordare che la felicità non
è - non può essere - una condizione umana.
Quale fu l'inciampo in cui cadde Minos? Aveva chiesto a Posidone di mandargli
un segno, un prodigio che confermasse ai Cretesi il favore degli dèi
e, con ciò, il divino fondamento del suo potere. Il dio rispose
che avrebbe esaudito la preghiera, ma solo a patto che lui, il re, sacrificasse
poi, senza esitare, l'animale favoloso che gli sarebbe stato mandato.
Di lì a poco, uscì dalle onde del mare, di fronte al porto
di Cnosso, un magnifico toro bianco. Vedendone le splendide forme, Minos
si pentì della promessa, celebrò un altro sacrifìcio
e decise di tenere per sé quella bestia.
L'infuriato signore dell'Oceano meditò lungamente in quale modo
vendicare l’onta che gli era stata arrecata - sappiamo già,
per esempio, dalle vicende di Odisseo, quanto fosse pronto all'ira il
barbuto Scuotitore di terre - ed escogitò alla fine un inganno
terribile: ebbene, se il toro era piaciuto tanto al re, che piacesse molto
anche alla regina!
Posidone fece sì che Pasifae s'innamorasse follemente del toro
e non bramasse altro che unirsi a lui, in nozze segrete e bestiali. Ma
in quale modo? L'artefice Daidalos, che viveva in quel tempo alla corte
di Cnosso, per soddisfare le brame della regina costruì un'immagine
di mucca, una «falsa vacca», usando legno e vimini; e vi nascose
Pasifae, traendo così in inganno il toro di Posidone. Frutto di
quell'amore mostruoso fu il Minotauro - «toro di Minos» -
o Tauromino, chiamato anche con il nome di Asterios, dalla testa taurina
e dal corpo umano. In ottemperanza all'ingiunzione di un oracolo, il re
rinchiuse il mostro nel labirinto, costruzione di vie fallaci, eretta
appositamente da Daidalos.
Tra i figli che Pasifae aveva dato al Signore dell'Oceano e delle isole,
eccelleva per abilità in tutte le gare il giovane Androgeo. Giunto
in Attica per partecipare alle feste panatenee, il principe morì
nella lotta contro il toro di Maratona, ad affrontare il quale era stato
mandato da Egeo, re di Atene; oppure, secondo un'altra versione, fu ucciso
a tradimento dai giovani ateniesi suoi rivali, invidiosi delle sue vittorie.
Minos, assetato di vendetta, assalì Atene con una flotta. Stretta
d'assedio la città, invocò l'aiuto di Zeus protettore degli
ospiti, e il dio mandò sopra i difensori pestilenza e siccità,
costringendoli alla resa. Una delle condizioni di pace fu che ogni nove
anni Atene mandasse a Creta un tributo di sette giovani e sette fanciulle,
destinati a essere gettati in pasto al Minotauro.
Teseo e Ariadne
Di questo famosissimo eroe ateniese si narrava che re Egeo ne fosse, sì,
il padre mortale: ma Posidone era ritenuto il suo padre divino. Ai tempi
di Egeo, regnava sulla piccola città di Trezene nel Peloponneso
- con l'aria tersa la si scorge dalle alture dell’Imetto - Pitteo,
figlio di Pelope e Ippodamia e padre della giovane Etra, che ricordava
nel nome il cielo sereno. Proprio davanti alle rocce della costa di Trezene,
sorgeva dal mare una piccola isola chiamata Sferia, «la palla»,
che si poteva raggiungere anche a guado. Lì c'era un tempio di
Atena dove le vergini del luogo andavano alla vigilia delle nozze per
deporvi la loro cintura.
Un giorno, mentre la fanciulla Etra era sbarcata sull'isola per celebrarvi
dei sacrifìci, la dea glaucopide le mandò una stanchezza
improvvisa, un sonno invincibile; e quando la giovane si risvegliò,
si trovò tra le braccia di Posidone, che la bramava da tempo e
la fece sua.
Da allora, l'isoletta mutò nome e si chiamò Hièra,
«la santa». Tornata al palazzo del padre, la principessa incontrò
il giovane Egeo, giunto in visita proprio quel giorno. Il re Pitteo, ottemperando
a un vaticinio, fece stordire il giovane con il vino e ordinò alla
figlia di mettersi nel suo letto. Al mattino, quando il giorno ebbe fugato
le tenebre e l’ubriachezza, Egeo lasciò il letto dell'amante
che portava il nome della luce del cielo, le diede la sua spada e i sandali,
vi pose sopra una grossa pietra e le ingiunse che, quando il figlio nato
da quella unione - lui infatti non era a conoscenza dell'avventura con
Posidone - fosse cresciuto abbastanza per sollevare il masso, lei gli
rivelasse la sua origine, gli ordinasse di prendere la spada, di calzare
i sandali e raggiungere Atene, per farsi riconoscere da suo padre.
Quando ebbe compiuto i sedici anni, il giovane Teseo sollevò senza
sforzo il masso sotto cui si trovavano i sandali e la spada e fece come
la madre gli aveva ordinato. Tralasciamo la narrazione delle molte avventure
e degli scontri vittoriosi del giovane eroe, partito a debellare mostri
e briganti: diciamo solo che dovette subire quelle prove anche perché,
secondo un'altra storia, era incorso nelle male arti e nella gelosia di
Medea, la maga. […]
Ultima spedizione del giovane, vittoriosa anch'essa, fu quella contro
il furioso toro di Maratona, che continuava a devastare le campagne circostanti
e vi seminava il terrore: quella fu anche un'ottima prova preparatoria
all'impresa ben più impegnativa che lo aspettava a Creta. […]
Al solenne convito che seguì (l’uccisione del Toro di Maratona),
l’eroe, mentre stava già per vuotare la coppa di veleno che
Medea aveva preparato per lui, sguainò la spada, forse per tagliare
la carne che gli era stata servita. Il re, al vedere l'arma affidata tanti
anni prima alla giovane Etra e scorti anche i sandali, salutò con
grida di gioia il figlio ritrovato e lo strinse fra le braccia, piangendo.
La maga dalle male arti non aspettò di essere scacciata con ignominia,
ma salì sul suo carro alato e scomparve nell'aria. Dice la favola
che quello fu il suo ultimo inganno; tornata in Colchide, si riconciliò
con la sua famiglia.
Al compimento di quella impresa, erano già trascorsi diciotto anni
da quando Minos aveva imposto ad Atene il terribile tributo e si stava
per scegliere una terza volta la schiera del sacrifìcio da mandare
a Cnosso; e così l'eroe lo seppe. Fu rapida la sua decisione di
muovere contro il Minotauro e liberare la sua città da un onere
così infame. «O salverò il mio popolo», disse
al re, «oppure morirò con i miei compagni. Così avrò
fatto quel che mi spetta.» Egeo pianse udendo le sue parole e fece
di tutto per dissuadere il figlio; ma il popolo stava mormorando che,
dopo tutto, non era giusto che proprio il sovrano, primo responsabile
di quella iattura, si sottraesse ai mali che ne derivavano e che, in fondo,
ogni madre soffriva nello stesso modo per il sacrifìcio del proprio
figliolo. Le proteste si facevano sempre più vive. Allora, davanti
all'assemblea del popolo, Teseo si alzò in piedi e si dichiarò
pronto a partire con gli altri giovani, anche senza partecipare all'estrazione
per sorte.
Re Egeo dovette cedere. «Vai dunque», disse al figlio. «Quando
il tempo sarà compiuto, io vigilerò il ritorno della tua
nave stando sull'alta rupe del Sunio. Se riuscirai nell'impresa, isserai
vele bianche al posto di quelle nere con cui partirà oggi la nave
infausta; e così saprò subito della tua vittoria. Il mio
cuore esulterà di gioia e porterò sacrifici a Posidone placato.»
Quindi, insieme ai tredici suoi compagni - o forse era quindicesimo, secondo
altri mitografì - Teseo andò al tempio di Apollo e offrì
al Nume un ramoscello d'ulivo avvolto in un ciuffo di lana bianca, omaggio
dei supplici che invocano protezione. Poi, accompagnato dal popolo, scese
al Falero e, preso congedo dai famigliari, dagli amici, dalla città,
salpò per Creta sulla nave dalle vele nere:
"Sul mare di Creta navigava la prua raggiante d'azzurro.
Portava Teseo e sette coppie di giovani Ionii."
Bacchilide,
Ditirambo di Teseo
Giunto all'isola, fu accolto da Minos, nonostante la sorte che lo attendeva,
con grandi onori, in quanto figlio di re. La sera venne celebrato un banchetto.
Quando fu versato per la terza volta il vino che toglie gli affanni anche
quando si stende sul cuore l'angoscia di un domani incerto, Teseo iniziò
a narrare le sue imprese. Seduta alla sinistra del padre, l'ascoltava
intenta Ariadne Glaucopide e, ascoltandolo, si invaghì di lui.
Dopo il convito, Ariadne chiese consiglio al vecchio Daidalos e si fece
consegnare da lui una spada a due tagli e un lungo gomitolo di filo di
lana. Poi fece giurare all'eroe che l'avrebbe sposata e condotta ad Atene.
In quale modo Teseo fosse riuscito a trovarsi solo con la principessa,
non è narrato dai favolisti. Secondo un antico disegno vascolare,
lei stava filando la lana quando il giovane, pregandola e vezzeggiandola,
le tese una mano. La giovane gli consegnò il fuso con il filo,
oppure un gomitolo già attorto, come si vede in un altro dipinto?
Così munito, l’eroe, venuta l'alba, chiamò a raccolta
i compagni destinati a essere divorati dal Minotauro e li condusse alla
spiaggia per il sacrifìcio di rito. L'oracolo di Delfi gli aveva
consigliato di eleggere la dea dell'Amore a sua guida. Solo allora Teseo
comprese il senso nascosto di quel vaticinio.
Armato e rinfrancato, l'eroe penetrò quindi nel labirinto, lasciando
i compagni all'ingresso, dove aveva fissato il capo della matassa. Il
cammino era silenzioso e le tenebre si facevano sempre più fitte.
Dalle dita dell'eroe il filo si svolgeva lentamente, quasi senza fine.
Di tanto in tanto arrivavano rumori ed echi, lungo le pareti lisce, e
come un soffiare, un muggire del vento. Del vento? Poi, là dove
doveva essere il recesso più interno del cammino intricato, dopo
avere svoltato a destra e a sinistra infinite volte - o, almeno, così
gli pareva - albeggiò come un pallido chiarore. Udì prima
il respiro della Bestia; poi la vide, stesa su un fianco. Dormiva, greve
nel sonno e come innocente. Secondo l'ordine dell'oracolo, Teseo avrebbe
dovuto afferrarla per le sopracciglia e sacrificarla a Posidone.
D'improvviso, udendo il lieve rumore del mortale che le si stava avvicinando,
la Bestia si destò e, proprio come gli animali selvatici, fu subito
sveglia e pronta ad afferrare un sasso che giaceva lì vicino. I
due si guardarono. Lo spazio era poco. L'eroe si gettò sull'animale
e, stendendo la sinistra sopra l'occhio del Tauromino, immerse la spada
nel suo corpo. Presto le pareti dell'antro, la terra, il corpo dell'eroe
furono lordi di sangue; e Teseo invocò anche il nome di Posidone.
Poi, riavvolgendo lentamente il filo di lana, uscì dal labirinto.
Secondo altri, il pericolo stava più nell'oscurità che negli
intrichi del cammino, e Ariadne innamorata avrebbe accompagnato l'eroe
e gli avrebbe illuminato il percorso con il fulgore d'oro della corona
che aveva sulla testa, oppure con un serto luminoso. Agli antichi, questo
sembrò aggiungere altra ignominia a un tradimento già grande,
poiché il Minotauro era, dopo tutto, fratellastro della fanciulla
e la corona era simbolo di verginità.
Quando Teseo lasciò Creta, sulla nave si trovava anche Ariadne.
Ma la favola narra che, con uno stratagemma e approfittando del sonno
di lei, l'eroe l'abbandonò sull'isoletta di Dia. Secondo un altro
racconto (Diodoro Siculo, V, 51, 4), Teseo non avrebbe rifiutato le nozze
per infedeltà, ma perché Dioniso gli sarebbe apparso nel
sonno, imponendogli di lasciare la fanciulla, che egli voleva eleggere
a sua sposa.
Giunto il mattino e prima che lei, al risveglio, si accorgesse dell'abbandono
e se ne disperasse, Dioniso scese sull'isola, seduto sul suo carro tirato
da tigri e da linci gigantesche e, svegliatala, la incoronò con
il mirto che protegge dall'ubriachezza e la portò in corteo nuziale
sul monte Drios si sull'isola di Naxos. Quale correa dell'assassinio del
fratello, Ariadne fu inizialmente annoverata tra le grandi peccatrici;
più tardi i Greci non solo la perdonarono, ma la riconobbero quale
coniuge del dio ambivalente terreno e segreto, lieto e terribile, capriccioso
e crudele che fu Dioniso (o Bacco) e accettarono che il suo sposo divino
la facesse assurgere tra le costellazioni, affinchè fosse pienamente
riconosciuta la sua dignità di consorte sacra.
Nel cielo, Ariadne prese il nome di Aridela, «visibile da lontano».
Nella Grecia antica, la figura di Ariadne la cui importanza ne faceva
di frequente oggetto di un culto vero e proprio, anche e soprattutto per
il suo aspetto di figlia del Sole, vergine solare e simbolo della primavera
si affiancava a quella di Dioniso, con aspetti non di rado ambivalenti,
poiché aveva una parte festosa e una parte dolorosa, funebre e
lamentatoria, rivelando così, anche secondo W.F. Otto, l'ambivalenza
generale della religiosità dionisiaca.
Ariadne è portatrice mitizzata di dolore e di felicità,
un simbolo di situazioni-limite: nulla di umano le è alieno, tuttavia
lei vive iu una relazione continua con il divino.
(E, quanto al simbolismo del filo, esso rappresenta in molti contesti
e indica sempre anche nella forma di catena, corda o mero tracciato grafico
un collegamento dei vari stati di esistenza tra di loro e con il principio
che li anima: ritroviamo sempre la rappresentazione di una linea senza
soluzione di continuità, di un tracciato più o meno complicato,
talvolta ripiegato su sé stesso in modo da formare nodi o intrecci,
ma sempre con la volontà di indicare come nodo vitale, ganglio
una coesione, una condensazione, una stasi, la cui risoluzione equivale
alla cessazione dello stato morale o della situazione di legamento di
cui è simbolo; pensiamo al motivo così frequente del meandro
o a quello della linea serpentina che ricorda sui sarcofaghi il fluire
costante della vita verso la morte e della morte verso la vita.) Giunto
a Delo, insieme ai giovani compagni scampati alla morte (Plutarco,
Thes., 9, d), Teseo danzò con loro la danza delle gru,
che imitava le sinuosità del
labirinto. Offrì poi un sacrifìcio ad Apollo ed eresse vicino
alla spiaggia una statua di Afrodite che Ariadne aveva portato con sé
sul mare; da allora, quell'immagine fu venerata sull'isola sacra come
Hagne Afrodite; e al Falero, a ogni ritorno dell'autunno, nella stagione
della vendemmia, gli Ateniesi commemoravano l'eroe e ricordavano il ritorno
dei loro figli, indenni da una simile avventura.
Poi, finalmente, Teseo drizzò la prua della nave verso la patria,
impaziente di portare ad Atene la notizia della salvezza sua e dei suoi
compagni e della liberazione della città da un tributo tanto odioso.
Ma sappiamo già come alla gioia segua rapido il dolore e come l'invidia
degli dèi sia pronta. Tornando verso i lidi familiari, l'eroe dimenticò
la promessa fatta al padre, cioè di issare una vela bianca in caso
di vittoria; e il vecchio re, quando vide spuntare dal mare la vela nera
che dirigeva la rotta verso il capo Sunio, si gettò disperato dall'alto
dello scoglio.
Tuttavia, anche la pietà degli dèi è pronta. Per
ricordare l'evento, il mare che cinge e unisce le coste e le isole dell'Ellade
porta da quel giorno il nome di Egeo.
Daidalos
Era destino che la vita di Minos fosse strettamente legata a quella del
grande
artefice che viveva alla sua corte. Chi era Daidalos (che ripeteva nel
suo nome il daidallein, «bene costruire»)? Ateniese, fu l'inventore
dell'ascia doppia (labrys), della lesina, della squadra, della livella
a bolla, del trapano, della vela, «delle statue che si muovono»,
e discendeva da stirpe regale. La leggenda narra che dovette fuggire dalla
sua città natale dopo aver ucciso per gelosia di maestro un suo
nipote e allievo; e trovò rifugio a Creta, dove il re, contento
di avere alla sua corte un artefice cosi famoso, gli accordò protezione
e favori.
Dopo la fuga di Teseo, Minos si vendicò del tradimento e della
complicità con Ariadne rinchiudendo Daidalos, insieme al figlio
Icaro, nel labirinto da lui stesso costruito. Fu allora che, per salvarsi,
Daidalos ricorse alla grande invenzione dell'ala, e sappiamo dalle Metamorfosi
di Ovidio in quale modo Icaro, per essersi avvicinato troppo al carro
del Sole,
sciolta dal grande fuoco la cera che univale penne, precipitò in
mare. Il padre, più prudente, riuscì a prendere terra in
Sicilia, tra Selinmite e Agrigento, dove, come dicono, fu accolto dal
re Còcalo con gli onori dovuti a un simile maestro.[…] Tuttavia,
il talassocratore Minos, deciso a riprendere il suo architetto, lo inseguì
e, sebbene lui si fosse nascosto con il consenso del re, lo trovò
grazie a un ingegnoso espediente. […] Mentre andava
da una città all'altra, prometteva in ogni luogo un grosso premio
a chi fosse riuscito a far passare un filo entro le volute di una conchiglia
a spirale. Quando Minos si vide restituire da Còcalo la conchiglia
con il filo che la percorreva, seppe di avere trovato chi cercava; infatti,
Daidalos aveva risolto il problema (non sapendo chi lo avesse posto),
praticando un forellino d'ingresso nella conchiglia e immettendovi una
formica intorno a cui aveva legato un filo sottilissimo.
Ma, dopo, Minos chiese invano a re Còcalo di consegnargli il fuggitivo;
anzi, soccombette a una nuova e ultima astuzia dell'artefice. Questi aveva
raccontato alle fìglie di Còcalo (Diodoro Siculo, IV, 79)
che il Cretese era solito farsi innaffiare nel bagno con un getto d'acqua
(o, secondo altri, di pece) bollente. Morì in questo modo, lontano
dalla sua isola, nella città di Càmicos, il sovrano che
Esiodo avrebbe chiamato «il più potente fra i mortali»;
e la sua tomba fu mostrata per lunghi secoli nei dintorni di Agrigento.
Altri dicono che i suoi resti furono restituiti ai Cretesi, i quali li
avrebbero collocati in un sarcofago, su cui si leggeva:
«Tomba di Minos, figlio di Zeus»
Una parentela misteriosa e simbolica sembra collegare i protagonisti del
mito.
Daidalos (Dedalo) è un Eretteide, ossia un discendente di quell'Eretteo
che Efesto, dio del fuoco e degli artifìci che si fanno con il
fuoco, avrebbe generato con Gaia, la Terra, madre di tutte le cose. Ma
Eretteo, fondatore della città di Atene, è anche un essere
semidivino, la cui natura partecipa dell'uomo, del serpente e del vento,
ed è a sua volta correlato a Pitone e Delfina, ossia ai due serpenti
gemelli, uccisi o, secondo altri, domati da Apollo,
che li intreccia sul cadùcèo, simboli di vita e di morte,
del potere di guarire e di far morire.
Padre di Dedalo fu Metione, secondo figlio di Eretteo: il grande artefice
è perciò nipote del primo ateniese, uomo-serpente, nonché
pronipote di Efesto, dio che opera con il fuoco e forgia gli oggetti con
gli arnesi del fabbro e della Terra.
Ma non basta: secondo alcuni mitografi, Cecrope, essere primitivo da cui
gli Ateniesi avrebbero preso il nome di Cecropidi, sarebbe stato fratello
minore di Metione, padre di Dedalo, e quindi nonno di Egeo, padre (umano)
di Teseo. Seguendo le segrete suggestioni del mito, vediamo dunque che
Dedalo, uomo di stirpe regale, è zio (o prozio) di Teseo […].
Interamente tratto da Il Libro dei Labirinti, Storia di un Mito e
di un Simbolo di Paolo Santarcangeli, Edizioni Frassinelli
Inserito nel sito www.ilcerchiodellaluna.it
il 23 gennaio 2006
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