Ho
sposato un Minotauro
Si aggirava cieco ai richiami della luce per le infinite stanze,
gli interminabili corridoi della sua dimora. Pietra rossa, tufo e arenaria.
Terra battuta sotto i suoi piedi nudi, terra scura che nelle stagnanti
giornate estive si infilava in ogni crepa, in ogni fessura.
Era solo da sempre. Solo come un bambino immemore nel grembo di sua madre.
Del mondo di fuori percepiva solo rumori lontani, smorzati, che gli arrivavano
da una distanza infinita. Non sapeva delle nuvole e delle albe. Non conosceva
tramonto.
Percorreva ostinato i meandri, gli anfratti e gli slarghi della sua casa.
Ne conosceva ogni angolo e sapeva, anche a occhi chiusi, dove si trovava.
Sempre. Lo guidavano gli odori, le rugosità del terreno, la più
piccola asperità delle pareti.
A volte paziente e fiducioso, a volte quietamente disperato, si lasciava
sfinire da giornate sempre uguali che per lui avevano il colore uniforme
della penombra, il sapore dolciastro della polvere.
Dormiva sonni brevi, agitati. Si accasciava ovunque si trovasse e sognava
spesso lo stesso sogno, che lo riempiva di una sotterranea inquietudine,
da cui cercava di liberarsi come un animale impigliato in una rete troppo
sottile.
In quei momenti, tornava a ripercorrere i corridoi come un cieco, sbattendo
contro ogni angolo e ferendosi quasi senza dolore. Soltanto la stanchezza,
quella stanchezza che conosceva così bene, pareva placarlo. Si
abbandonava allora di nuovo al sonno, un sonno diverso dall'altro abitato
dai sogni, un sonno fatto della stessa penombra dei suoi giorni.
Io poco sapevo di lui. Frasi spezzate, allusioni, leggende; ma mi sentivo
richiamata da quella bassa costruzione di pietra che verso sera si accendeva
di bagliori rossastri.
Avevo preso l'abitudine di passeggiare al tramonto intorno alla sua casa.
Mi pareva di avvicinarmi ogni giorno di più allo strano essere
che vi abitava, di penetrare silenziosamente nel mistero della sua smisurata
solitudine.
Tornavo rinfrancata da queste peregrinazioni: ogni giorno più forte,
più luminosa, più bella.
Nessuno capiva cosa potesse chiamarmi là e nemmeno io lo sapevo.
Seguivo solo un richiamo del corpo, ubbidivo alle mie gambe nervose, ascoltavo
il rimescolio del sangue e mi sentivo alla fine placata, come chi può
avvicinarsi a una fonte dopo una lunga sete.
Non aspettavo nulla: ora dopo ora, frammenti del mio passato si staccavano
da me, si allontanavano, non mi appartenevano più, e io gustavo
la grazia che non si può invocare, la tremenda grazia del dimenticarsi.
Fu alla fine di un lungo, estenuante pomeriggio di immobilità e
di afa che sentii per la prima volta il suo lamento. Non somigliava a
nessuna voce udita prima: era roco, profondo, inerme.
Non era più umano, veniva dalla zona di confine che sta tra la
bestia e il dio.
Riconobbi la bestia. Mi innamorai del dio.
Da quell'istante per me non vi fu più pace.
Persi la luce, la leggerezza che avevo conquistato. Divenni vuota per
lasciar spazio a un unico pensiero che aveva la rigorosa monotonia di
un'ossessione: penetrare in quella fortezza, incontrarmi con lui, spegnere
quel lamento.
Cominciai a percorrere con le mani le pareti esterne della rocca, alla
frenetica ricerca di un passaggio. Mi ferivo senza dolore, abitata da
una febbre che non conoscevo.
A volte, mi lasciavo cadere, sfinita, lungo il perimetro delle mura e
capitava sempre più spesso che facessi lo stesso sogno. Al risveglio,
proseguivo affannata la mia ricerca, senza trovare quiete.
Mi trasformai: in poche settimane ero irriconoscibile
Nessuno avrebbe saputo vedere in me la giovane donna che ero stata. I
capelli pendevano inerti davanti al viso, impastati di polvere e lacrime.
Gli abiti erano a brandelli, le unghie spezzate.
Mi abitava una forza smisurata.
Fu verso sera , al risveglio da uno di quei brevi sonni che non portavano
pace, che sentii uscire dalle mie viscere stesse un lamento che non aveva
nulla di umano: veniva dalle profondità delle paludi e delle golene,
percorreva la distanza infinita delle stelle. Nasceva da me, ma non mi
apparteneva. Mi traversava soltanto. Eppure era la mia voce. Una voce
sconosciuta e segreta che forse inseguivo da sempre.
Quando quel lamento cessò, alzai gli occhi verso il cielo che si
stava oscurando e mi accorsi che fra le pietre si era aperto un varco,
illuminato da un incerto chiarore.
Con le ultime forze mi rialzai e lo traversai quasi senza coscienza.
Mi ritrovai in una penombra che aveva la stessa consistenza dei miei sogni.
Fu un attimo.
Sentii che dietro di me qualcosa si richiudeva pesantemente, ma senza
sforzo. Non mi voltai nemmeno. A tastoni, ma sempre più decisa,
mi avviai verso la luce.
Pomeriggio del 31 luglio 1997 ©
Rosa Carotti
Il disegno che accompagna il racconto è di
Luciano Macalli Mec, artista cremonese.
Inserito nel sito www.ilcerchiodellaluna.it
il 10 novembre 2005
|