La Grande Dea |
L'Intimità femminea arcaica e il sacro
rito dell'Anasyrma di Violet* Come cerbiatte o giovenche, nel tempo della primavera, sazie di cibo balzano attraverso il prato, così esse, sollevando i lembi delle belle vesti, correvano lungo la strada avvallata e le chiome giù per le spalle ondeggiavano, simili al fiore del croco. (Inni omerici, a cura di Filippo Cassola) Nell’antico mondo femminile, le donne coltivavano e custodivano in loro stesse la consapevolezza dell’amorosa presenza del divino muliebre, che ardeva dentro di loro come un piccolo e luminoso fuoco perpetuo, colmandole di dolce voluttà. Il loro corpo dalle rosee e morbide curve, era concepito come una sua sacra manifestazione, che ne ritraeva l’armoniosa e languida bellezza, ma soprattutto la loro segreta intimità, avvolta in calde penombre e velata per proteggerne il mistero, era il ricettacolo nel quale la sua energia numinosa si concentrava e si propagava. Ricolma della tenera eco d’amore della Dea androgina, essa era venerata e sentita proprio come un centro divino trascendente, come un tiepido covo in cui veniva percepito “un tenue e costante languore erotico” (1) e in cui la coscienza silenziosa della comunione fra la Dea e la donna pulsava amabilmente, generando e rigenerando la splendida magia femminile. Spesso paragonata alle espressioni più belle e gentili della vergine natura, l’intimità era vista come uno specchio d’acqua purissima, come una sorgente fluente dalle scure rocce ricoperte di soffice muschio e piccoli fiorellini bianchi, che ammaliava col suo sottile canto cristallino, profondendo la sua infinita armonia che addormenta i pensieri… Pervase dalla divina essenza amorosa che raccoglievano nel loro intimo, le donne cercavano di concentrarsi, di identificarsi e di riconoscersi in essa, lasciandosi avvolgere dal suo tiepido languore che aveva il potere di allontanare e far svanire qualsiasi pensiero, preoccupazione o stato d’animo negativo, ristabilendo l’armonia interiore e rendendo la mente limpida come le acque di un ruscello di montagna (5). Immerse nel silenzio interiore, esse potevano così udire l’antica Madre che mormorava e cantava dentro di loro e intorno a loro, e forse vivevano momenti d’estasi e commozione nell’ascoltarla, nel sentirla parte di sé così come loro erano parte di Lei e del suo amore infinito, lo stesso amore che permeava la natura e che esse potevano intuire nel cinguettare degli uccellini sui rami d’un pesco fiorito, nel timido spuntare di una stella alpina fra le rocce, o nella pallida luna che si vela di nubi leggere nella quiete della notte. Sembra che in ogni parte del mondo le donne, ispirate dall’amabile Dea e unite nell’anima da un luminoso filamento d’argento, svolgessero gli stessi riti e gli stessi gesti sacri. L’anasyrma, con la sua energia voluttuosa e benefica, era uno di questi, e molti racconti mitologici, nonché rituali la cui conoscenza è sopravvissuta sino a noi, ne conservano tuttora la memoria. Proprio ricordando il sacro anasyrma compiuto dalla saggia Baubo, e dalla radiosa Demetra, le donne di Licia lo ripetevano in loro onore, e con la sua energia apotropaica riuscivano a placare le più violente manifestazioni naturali. Si racconta che, una accanto all’altra, così che la loro magia femminile fosse più forte e immediata, esse mostrarono la loro intimità al mare furente che sbatteva le sue altissime onde ad infrangersi sugli scogli e ad invadere violentemente le spiagge. E il grande mare, dinnanzi a quella visione inattesa, si ritirò, e con lui si ritirarono i flutti in tempesta (10). Anche in Egitto, le donne compivano l’anasyrma in onore della Dea gatta Bubastis, che vegliava soprattutto sulla sfera sessuale e sull’intimità femminili. Talvolta, durante gli antichi rituali agrari, alla magica gestualità dell’anasyrma si sostituiva l’assoluta nudità delle donne, le quali, con lo splendido corpo e il sacro mistero del tutto svelati, spargevano ancora più liberamente il loro armonioso potere generativo. Questo è ciò che accadeva in un rito agricolo che veniva celebrato prima della nascita di Roma, e che con la fondazione di questa imponente città si involgarì e degenerò, trasformandosi nella festa delle Floralia. La splendida magia femminile che le antiche divinità madri rappresentavano, e che le donne arcaiche facevano sorgere, coccolavano e preservavano nella loro sacra intimità, era dunque sempre la stessa, in ogni luogo e in ogni tempo, come si comprende da questi antichi miti così simili seppur appartenenti a culture diverse e molto lontane fra loro. E se qualche ormai rara fanciulla desiderasse ancora, in questi tempi caotici e spenti, di ritrovare quella scintilla d’amore languido e tiepida luce, magari aiutata dalla Fortuna, potrebbe forse iniziare a cercarla in quei luoghi misteriosi nei quali essa potrebbe nascondersi… come in una sorgente dalle scure rocce ricoperte di soffice muschio e fiorellini bianchi, o in un fiore purpureo dai languidi e umidi petali; in una dolcissima melagrana dallo spacco vermiglio, o persino in una piccola grotta umida, calda e accogliente… * Articolo di Violet. tratto da Il
tempio della Ninfa e, pubblicato su www.ilcerchiodellaluna.it
nel luglio 2010 ______________________________ Tratto da La casa delle donne dagli occhi luminosi, Ada D’Ariès, Edizioni della Terra di Mezzo, Milano, 2006, pagg. 121-122 _____________________________ Riterrei importante fare una piccola precisazione: quando all’interno di scritti come questo si parla di “antico mondo femminile”, oppure di “tempi antichi”, oppure ancora di “donne arcaiche”, con questi e numerosi altri riferimenti “all’antichità” non ci si vuole mai riferire ad un periodo storico preciso, definito in termini di tempo e spazio, ma come spiega l’autrice Rosina-Fawzia Al Rawi nel suo bellissimo libro Grandmother’s Secrets, ci si riferisce piuttosto ad un interiore e profondo livello di consapevolezza e ad un modo d’essere più naturale e vicino al divino, che prescinde totalmente dal tempo e dallo spazio. (Cfr. Rosina-Fawzia Al Rawi, Grandmother’s Secrets, Interlink Books, Northampton, MA, 2009, pag. 29). 1. Ada D’Ariès, Alla ricerca della Luna, Edizioni della Terra di Mezzo, Milano, 1997, pag. 28
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